Sono passate un paio di settimane dal parto. I ricordi iniziano già ad offuscarsi lasciando il posto alle sensazioni, ai colori, ai suoni. La voce squillante del Vikingo che ha aiutato il papà a contare durante le contrazioni mentre eravamo ancora a casa. L’azzurro degli occhi di Malin. Il senso di controllo del dolore quasi fino alla fine. Lo smarrimento prima della spinale. L’umido di quel corpicino posato sul mio ventre. Le lacrime di commozione trattenute a fatica. L’emozione di guardare negli occhi il mio piccolo, e trovare istantaneamente la risposta alla domanda che mi ha assillato negli ultimi 9 mesi: “riuscirò ad amare anche lui?”
Il travaglio in sè è durato pochissimo, dalle 9 del mattino alle 6 del pomeriggio. Tutto diverso dal precedente durato 3 giorni. Ma si sa, ogni gravidanza è unica, e nonostante ci si aspetti che tutto si ripeta uguale, anche il parto si dimostra diverso. E non solo nelle emozioni che lo accompagnano. Verso le 13.30 chiamo l’ospedale e li avverto che stiamo andando. Il taxi ci aspetta fuori del portone. Il viaggio in auto accellera le contrazioni. Ne ho una ogni 3 minuti, e scruto l’autista alla ricerca di un segnale di panico nei suoi occhi. Mi diverte l’idea di un parto in auto, come nei film. In ospedale veniamo accolti da un’infermiera sorridente che ci chiede quale è lo stato. Poi ci accompagna in una sala, arredata in perfetto stile Ikea. Il divano in pelle rossa, il tavolinetto, lo stereo, i fiori alle finestre. Molto diverso dalla sala parto del nostro immaginario. Una ragazza giovanissima e biondissima si presenta. Si chiama Malin e mi aiuterà a partorire. Non è un medico, è un’infermiera specializzata. A meno di complicazioni non ci saranno medici in sala parto. Il monitoraggio conferma che va tutto bene: 133 battiti al minuto. La dilatazione è già di 5 centimetri. Siamo un pò confusi io e GG. Lui tiene diligentemente il conto, ma le contrazioni sono frequenti e non sappiamo bene come metterci. Malin prende in mano la situazione e inizia a suggerire posizioni. Ce lo avevano detto al corso, ma non ci ho creduto al fatto che una posizione diversa potesse effettivamente aiutare ad attenuare il dolore. Eppure funziona. Provo in successione la TENS, poi delle infiltrazioni di acqua sterile sottocutanee, infine il gas esilarante. Tutto sembra aiutare. Mi sento in controllo. Ad ogni contrazione mi ripeto “una in meno”. Riesco a continuare a respirare bene, con l’aiuto di GG e di Malin. Dopo un paio di ore, la dilatazione è completa. Le contrazioni sono sempre più dolorose, ma iniziano a durare di meno. Qualcosa non va. Il piccolo si è fermato ad un paio di centimetri prima dell’uscita. Ci deve essere qualcosa di molto interessante proprio in quel punto, perchè anche il Vikingo si era fermato li. Il dolore delle contrazioni è diventato insopportabile, oltre che inutile, visto che non si va avanti. Ma forse è proprio il suo essere inutile a renderlo insopportabile. Il piccolo li fermo, a contemplare il paesaggio o a pensare ai massimi sistemi. Mentre io fuori a soffrire. Alla fine cedo, e chiedo l’epidurale. Mi sento rispondere che è troppo tardi. Se voglio, posso fare una spinale. Whatever! L’anestesista arriva quasi immediatamente, e si presenta. Ecco, io tutte queste usanze di buon costume alla svedese, che nessuno ti tocca se non si è prima presentato, in momenti come questi, ebbene si, mi viene voglia di urlarle “NON ME NE FREGA UN C…. DI COME TI CHIAMI! TIRA FUORI L’AGO E BASTA!” e invece riesco a fare un cenno con la testa, e improvviso una smorfia al posto di un sorriso.
Finalmente ho dentro il silenzio. Riprendo possesso dei miei pensieri. Mi sento di nuovo una persona normale. La spinale è meravigliosa, e agisce molto più in fretta dell’epidurale. Sono improvvisamente molto grata all’anestesista. Chissà come si chiama?! Le sorrido.
Solo che ora il travaglio è fermo. Si parte con l’ossitocina. Dobbiamo convincere il piccolo ad abbandonare quel bel posticino che si è trovato, e procedere nel canale verso l’uscita principale. Malin mi dice di muovermi. Cammino su e giù per la stanza. Dopo circa un ora, è arrivato il momento di spingere. Malin mi invita a sedere su un panchetto a forma di ferro di cavallo a circa quaranta centimetri da terra. Lei si siede in terra di fronte a me. GG si siede alle mie spalle e mi sostiene la schiena. Non avrei mai pensato di partorire su un panchetto del genere. Quando parte la prossima contrazione devo iniziare a spingere. Malin mi da il via. Inizio. Dice che si vede la testa. Bastano poche spinte forti, e nel giro di un paio di contrazioni, il piccolo è fuori. Lo sento piangere.
Malin lo prende e lo poggia subito sulla mia pancia.
Il suo corpicino umido che mi scalda.
Nessuno lo laverà. Nessuno me lo toglierà. Da ora rimarrà con me tutto il tempo.
Malin dice che perdo molto sangue, mi mettono sul lettino. Iniziano a ricucirmi. Ma a me non importa più nulla. Perdo il senso del tempo. Il mio piccolo è con me. Si attacca al seno immediatamente.
Mi perdo nel blu scuro dei suoi occhi.
Piacere di conoscerti Pollicino. Sono la tua mamma.
Ci servono dei panini e del sidro analcolico, su un vassoio molto elegante, decorato con la bandierina blu con la croce gialla. Poi ci lasciano soli: io, GG e Pollicino. Non riesco a dormire, nonostante la stanchezza. Dopo meno di ventiquattro ore, il Vikingo e nonna A. vengono a prenderci. Il Vikingo chiede dove è il suo bebè. Lo accarezza. Si emoziona. Poi si fa la pipì sotto.
Prendiamo la metropolitana verso casa.
E siamo già famiglia.
Serena (post originale)
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