Quel che rende particolare il racconto del mio parto è il registro pesantemente comico, che mette in secondo piano tutti gli altri (l’emozione, la commozione, l’ansia, quella punta di suspance che non ci si risparmia mai in occasioni come questa). Ma non è una scelta stilistica dissacrante, nossignore. E’ stata proprio un’esperienza con quel tanto di surreale che ci ha strappato delle risate fin da subito.
Un po’ giocava l’atteggiamento del futuro padre. Curdo e poco incline alle sdolcinatezze, ai palpiti, ai sospiri. Non si sentiva esistenzialmente scosso dal fatto di diventare padre, non si preparava a una rigenerazione spirituale. In una famiglia come la sua le nascite sono eventi stagionali, come lo spuntare delle foglie a primavera. Nizam aveva pertanto deciso di non assistere neanche al parto, sentendosi in diritto di ricevere un prodotto finito. Si sentiva tronfio e sicuro: non aveva neanche fatto le analisi previste per entrare in sala parto. Trascurava, povero ingenuo, un fattore decisivo: le mie sorelle. Ma ci arriveremo.
Un momento topico dei racconti del parto è l’inizio del travaglio. Quel sabato mattina Nizam è andato al lavoro verso le 6.30. Io ho cominciato a prendere nota delle primissime contrazioni, non regolarissime, ma già un po’ cadenzate. Mi preparavo a sfoderare tutto l’armamentario: respirazioni, fantasie piacevoli, dondolii, etc. Ma a una cosa non ero preparata: ho iniziato a vomitare ininterrottamente. Vi immaginerete che concentrazione. Dopo un’ora così ho chiamato Nizam. A quel punto mi sono sentita rispondere la frase storica: “Ma non puoi aspettare un attimo? Deve arrivare l’escavatore“. Ecco, questo non è proprio il tipo di reazione che una donna cresciuta a telefilm americani si aspetta da un futuro padre, anche se impiegato in un cantiere. Ho provato a obiettare, sottolineando appunto la particolarità della circostanza. Quello che ho ottenuto è stata una reazione inorridita: “Ma lo sai quanto costa un giorno di lavoro dell’escavatore?“. Comunque, come Dio ha voluto, alla fine è arrivato.
Ero certa che fosse ancora troppo presto, ma ho pensato che un salto in ospedale era meglio farlo. Mi sono portata le analisi, ma non la valigia. Tanto siamo a due passi.
All’arrivo, mentre Nizam parcheggia, mi presento al reparto maternità. Mi affretto a precisare al primo dottore che incontro che certamente non c’è fretta e allora mi parcheggiano in un salottino. Mi ci avrebbero probabilmente lasciato il resto della giornata se Nizam, arrivato nel frattempo, non si fosse preso la briga di andare ad informare le ostetriche che stavo vomitando in tutti i cestini. A quel punto mi ricevono. Prima vengo sottosta ad un’accuratissima anamnesi. Io, completamente nel pallone, voltandomi ogni minuto e mezzo a vomitare, davo risposte a casaccio. “In che anno hai preso la pillola per la prima volta?” “Quanti anni aveva tua madre quando è stata operata alla cistifellea?” “A quanti anni hai avuto la prima mestruazione?”. Quando io ho sostenuto che il mio medico curante era Nizam, la signorina ha capito che anche le mie risposte precedenti potevano non essere del tutto attendibili.
Mi visitano. Dilatazione a 1, praticamente siamo a carissimo amico. Sono circa le nove, mi ricoverano comunque e mi sparano in vena la prima dose di antiemetico. Collasso su un letto in una camera doppia.
Una volta accertatosi che ero stata collocata correttamente in posizione orizzontale e in prossimità di un bagno, il futuro neo-padre si appresta a farsi un giretto, bersi un cappuccino e riprendere fiato. Viene tuttavia intercettato da una delle mie sorelle, che gli fa presente quello che tutti i lettori (e soprattutto le lettrici) di manuali sanno: la presenza del padre durante il travaglio è fondamentale. Insostituibile. Come poteva solo pensare di allontanarsi, sia pur di qualche metro? Senza poter avanzare obiezioni, viene quindi spinto di forza al mio capezzale. Va detto che io non ero molto di compagnia. Concentrata sul tragitto letto-water e viceversa, a ogni suo tentativo di interloquire sibilavo: “Zitto!”. Sono passate così diverse ore, che non ricordo come le più pregnanti della nostra relazione.
Mi sembra sia passata una mezz’oretta, in realtà sono circa le 12.30/13.00. Mi rivisitano, la dilatazione è a circa 7 cm. Mi mandano nel box travaglio parto. Si sa che un processo, una volta avviato, è difficilmente arrestabile. No, non mi riferisco al parto in sé. Nizam mi ha confessato settimane dopo che, pur avendoci pensato molto, non è riuscito ad immaginare un modo per dire a mia sorella (e alle altre due/tre sopraggiunte nel frattempo) che non voleva assistere al lieto evento. Ha sperato fino all’ultimo che qualcuno del personale medico gli chiedesse le analisi non fatte e gli impedisse con la forza di entrare. Ma siamo a Roma, era un afoso sabato di giugno e alla fin fine chi se la sentirebbe di negare a un premuroso papà di assistere alla nascita della sua primogenita? Nessuna speranza per il curdo, che si è trovato infagottato in un improbabile camice verde, con riservato un posto in prima fila per la tragicomica serie di eventi che sarebbe seguita.
La riluttanza non era data dal timore di soccombere all’emozione o all’impressione. Come si è premunito di esplicitare all’allibita giovane ostetrica, Nizam ha assistito a svariati parti di mucche fin dalla più tenera età. “Sarà una cosa più o meno simile, no?”.
Arriva anche l’anestesista Gianni: viva viva l’epidurale! Dopo un’ultima vomitata rifiato: in primo luogo perché non vomito più, ma anche perché i dolori delle contrazioni, a cui non avevo fino a quel momento fatto granché caso, sono passati. Ora che non ci sono più, mi rendo conto che anche quelli non erano male. Momento di grazia. Mi rompono le acque. Alle due circa, la dilatazione è completa, io rido e scherzo.
Colpo di scena: il battito della bimba precipita. Scena da ER: accorrono una quindicina di persone, tra ginecologi, ostetriche, infermieri. Mi mettono la maschera d’ossigeno e non me la levano più. Si predispone la sala operatoria per il cesareo. Però cercano di rassicurarmi e di mantenere un clima sereno. Dopo un po’ il battito ritorna normale. A quel punto la dottoressa mi spiega con calma l’accaduto e mi dice che, se sono d’accordo, finché il battito lo consente loro vorrebbero insistere con il parto naturale. Sempre lasciando predisposta la sala operatoria, ovviamente. Il problema ora pare sia che la bambina non è scesa e non pare scendere granché. Mi toccherà darle una mano. Si inizia a spingere, con la consapevolezza che siamo ancora ben lungi dalla fine. Dopo un po’ di spinte mi mettono in piedi, sempre attaccata al monitoraggio. Dopo un’oretta mi portano la sedia olandese, in modo che possa spingere da seduta. Poi di nuovo in piedi. A quel punto finisce l’effetto dell’epidurale. Io cerco di fare la stoica, perché mi sono convinta che il calo del battito possa essere dovuto all’anestesia. Ma dopo dieci minuti divento verde: arriva l’anestesista, che mi sgrida e mi fa un’altra dose, piccolina.
Certo, non è la meraviglia della prima volta. Quando lo confesso al buon Gianni, mi spiega che è perché è arrivata la fatidica fase finale. Avete presente quella di cui tutti ti dicono: “Sì, fa male, ma è proprio una cosa diversa, perché sei parte attiva della cosa”? Beh, io erano due ore e mezza che ero parte attiva e forse non ho apprezzato a sufficienza.
Si cambia il lettino e arrivano i rinforzi. La dottoressa mi spiega l’arcano: la bimba aveva piegato la testa da un lato e quindi non solo si incastrava, ma ben difficilmente sarebbe riuscita ad uscire solo con le mie spinte (anche perché ormai ero abbastanza provata). Quindi avevo bisogno di un aiutino, nella persona di un’ostetrica che ad ogni contrazione mi si buttava sulla pancia e di un’altra che da sotto cercava di facilitare le manovre. Episiotomia abbondante per consentire il tutto. Confesso che non è stato divertente, anche perché l’anestesia era finita e hanno impedito a Gianni di intervenire in mio soccorso. Ero completamente nel pallone, travolta da dolori di natura diversa. Qui Nizam tentava di fare la sua parte, reggendomi la testa. A un certo punto gli porgono un asciugamano per detergermi il sudore: lui cerca di soffocarmi, tipo tampone di cloroformio. Forse, pover’uomo, cercava di zittirmi. Se ci penso oggi ancora rido.
Qui si inserisce l’evento più eclatante. No, non la nascita della bimba. Lo svenimento della prima ostetrica. La poverina, una fanciulla piuttosto eterea, essendoci circa 40° e poca aria, provata dallo sforzo fisico di massacrarmi la pancia, collassa sul mio diaframma. La rimuovono prontamente e ne subentra un’altra, a cui dopo un po’ dà il cambio la dottoressa in persona.
Comunque alle 16.58, in una sola spinta, Meryem sguscia fuori in tutta la sua lunghezza ragguardevole (54 cm). Fresca come una rosa, lei. Frenando il fiero padre che voleva portarla immediatamente in corridoio per esibirla a parenti e sconosciuti, me l’hanno data quasi subito in braccio. Lei era avvolta in un asciugamano bianco e mi guardava. Nizam mi ha bisbigliato un’altra frase romantica: “Quando potrai farti una doccia? Puzzi”. In effetti, tra vomito e tutto il resto, non profumavo.
La vita della piccola è stata davvero a rischio solo nel momento in cui un dottore mi ha chiesto di allungare un braccio (forse per misurarmi la pressione, o per togliermi una flebo, non ricordo). “Senza lasciare la bambina!”, ha fatto appena in tempo a urlarmi. Un po’ per il rincoglionimento, un po’ per la scarsa pratica, la neonata ha corso seriamente il rischio di spiaccicarsi sul pavimento. Intanto un’altra zelante ostetrica faceva del suo meglio per ricucirmi: il secondo incidente è toccato a lei, che ha dato una bella capocciata alla lampada di metallo massiccio che illuminava il suo campo di lavoro. Non c’è che dire, una bella lista di feriti e contusi. Io, per fortuna, nel giro di poco ho guadagnato la mia camera sulle mie gambe.
Silvia (post originale)
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