lunedì 2 marzo 2015

una foto dal futuro

Intorno alla data presunta del parto, l’angoscia si era riaffacciata di prepotenza. Mi ero messa in testa che per il buon esito di tutto quanto avevo una lista di “cose da non fare”, tipo andare dal parrucchiere e rispondere al telefono e alle varie messaggerie. Non volevo andare dal parrucchiere perché l’avevo fatto prima di partorire la Stellina in modo da essere “in ordine” per dopo – e poi non avevo potuto muovermi per tre settimane, così da qualche parte era spuntato il pensiero che se invece fossi andata in ospedale spennata e coi capelli a carciofo, il parto sarebbe andato liscio e mi sarei ripresa prima così sarei andata dopo a farmi sistemare. Più seriamente, avevo bisogno di fare silenzio intorno a me e dentro di me. All’approssimarsi della DPP della Stellina chattavo in continuazione nei forum e ricevevo continuamente sms e telefonate che chiedevano notizie. Col senno di poi, mi ero resa conto che invece di rilassarmi mi innervosivo moltissimo. E infine avevo una lista di persone da non chiamare. Mia mamma, perché ogni volta che le parlavo mi sembrava di respirare la sua paura – con il primo parto avevo impiegato tutte le mie energie per mettere la paura sotto il tappeto, lei pensando di far bene, al telefono me l’aveva fatta tirare fuori facendomi parlare, ero diventata un fiume in piena ma a parte il “comandarmi” di fidarmi del personale, lei non era riuscita a calmarmi, così ero arrivata in reparto in preda all’angoscia senza che riuscissi nemmeno ad ammetterlo. Più stupidamente, mi ero messa in testa che nella lista di persone c’era anche la terapeuta. Ho avuto la saggezza di cambiare idea, ma di nuovo le circostanze si sono messe di mezzo e non siamo riuscite a sentirci in tempo. Però sono stata contenta di aver saputo cambiare idea.
Invece di nascondere l’angoscia, ho cercato di parlarne. È stata determinante mia sorella.
Le ho detto che facevo gli incubi perché, sapendo stavolta prima che il baby era un maschio, mi sembrava che nostra mamma e nostra zia mi avessero trasmesso perfino più forte la paura di ripetere la storia famigliare. Ogni dettaglio che – fino all’ultimo – inavvertitamente mia mamma sottolineava con la prima esperienza di mia nonna, più il pensiero della conversazione con mia zia – mi scatenavano dentro una tempesta di pensieri orribili. Era come se al di là delle parole dette, che erano scelte per essere incoraggianti, sentivo che la sfiducia di fondo di mia mamma rosicchiava la fiducia che nutrivo verso l’ospedale in cui andavo e la figura che avevo scelto, l’ostetrica Karin. Sapevo con certezza che non sarei andata da nessuna parte se avessi continuato a sentire quelle sirene: non mi importava tanto di ripetere il cesareo, quanto di ritornare in uno stato di angoscia totale in cui c’era il terrore di morire o di essere responsabile della morte del baby.
In una lunga sequenza di sms, mia sorella mi aveva fatto presente che al di là di quello che dicono mia mamma e mia zia, sono io stessa ad avere un problema di ansia. Non mi faceva piacere sentirmelo dire, ma effettivamente mi era servito. Soprattutto, mi aveva fatto presente che nostro zio era nato durante la guerra,  probabilmente nel ’43 o ’44. Negli ospedali non c’erano molti dei disinfettanti che noi oggi diamo per scontati. Sarebbe probabilmente sopravvissuto, se fosse nato solo un paio d’anni più tardi. (In “Vestivamo alla marinara” Susanna Agnelli, infermiera diplomata, raccontava che subito dopo la guerra aveva letto che in America avevano appena scoperto un prodotto in grado di far guarire le infezioni in un tempo straordinariamente breve. Lo riferiva a un medico e questo le rispondeva “E lei ci crede? Dio mio, quanto deve essere stupida”). E anche per nostro cugino, nessuno è mai riuscito a stabilire una connessione sicura fra la sofferenza durante il parto e la sua epilessia, dato che nella famiglia del marito di mia zia c’erano stati alcuni casi. Queste parole mi avevano calmato e permesso di prendere le distanze dall’agitazione: qui c’era neonatologia, ed essendo un ospedale potevo star sicura che in caso di avvisaglie negative, avrebbero agito di conseguenza. Forse proprio perché la possibilità era diventata più remota, si affaccia un pensiero difficile, e cioè che se fosse capitata una disgrazia, sarei sopravvissuta. Ammaccata e stranita come mia nonna, ma sarei sopravvissuta. Ma è un pensiero che si affievolisce, perché tutte le ostetriche avevano sempre ripetuto: la priorità assoluta è la sicurezza del bambino. Qui c’è neonatologia. Con i disinfettanti.
A partire dal controllo 40 + 0, sento distintamente che l’unica cosa che mi fa stare meglio è…  andare in ospedale per i controlli. Non saprei dire bene perché. Credo che in ogni singola occasione mi sento rassicurata da persone gentili e sorridenti. I ginecologi che mi visitano sono positivi: i valori sono a posto, la pressione è a posto, il bambino non è macrosomico, non c’è nessuna fretta, dal primo parto sono trascorsi quasi cinque anni per cui una rottura d’utero è improbabile: ci sono tutte le condizioni perché questo sia come un primo parto. Avevo fatto il colloquio per l’epidurale, in cui  un’anestesista molto timida e nervosa ci aveva avvisato di calcolare circa un’ora da quando viene chiamata a quando può effettivamente presentarsi in reparto: questa informazione, che lei presentava come negativa, aveva avuto l’effetto di rassicurarmi ulteriormente sul fatto che per loro era una procedura di routine. In televisione vedo uno straordinario documentario sull’effetto placebo e mi sembra di vivere una situazione simile. Osservo le decorazioni sui muri: una specie di fiume – o di vento – è disegnato lungo tutte le pareti. In questo fiume ci sono figure femminili che si abbandonano alla corrente. Ogni tanto una donna ne prende in braccio un’altra.
Al controllo 40 + 2, ricevo un sms da Karin, che mi chiede se sento qualcosa. Fin dal primo incontro lei aveva messo le mani avanti per non creare illusioni: non avendo avuto contrazioni al primo parto, avevo il 50% di possibilità che si avviassero nel secondo in quanto l’utero non conservava memoria di un’attività precedente. Le rispondo che sento un calore alla schiena simile a quello delle mestruazioni.
Da qualche settimana faccio sedute di agopuntura proposte dall’ospedale, quando dico all’ostetrica di aver superato il termine, mi pianta l’ultimo ago nella mano sinistra “avvitandolo” sulle ossa del pollice. Ahi! Cerco di andare ancora a ginnastica e camminare tutte le sere, arrivo stanca ma sento che mi fa un gran bene. Con Marlon la sera proviamo i massaggi del “metodo Bonapace” poi provo la respirazione yoga e se non riesco a dormire attacco una sequenza di mp3 new-age (mai fatto prima, ma fa effetto, penso anche perché non l’associo a nessun ricordo). L’ostetrica al corso preparto ci aveva consigliato di mangiucchiare durante il travaglio e mi aveva sussurrato all’orecchio di nascondere della cioccolata per Marlon – in valigia ci finisce confezione di “palle di Mozart” un po’ per ridere, un po’ per immaginarmi in sala parto. Inizio a dirmi che tutte le scadenze lavorative che continuano a frullarmi in testa non devono necessariamente essere concluse “prima” ma possono esserlo anche “dopo”.
Al controllo 40+7, vado in ospedale. Il caldo ai reni continua e ogni tanto sento qualcosa alla pancia che mi fa cambiare il respiro. Chi mi mette il monitoraggio è la stessa ostetrica che avevo incontrato al mio primo ingresso in quell’ospedale, e che mi aveva presa per mano per accompagnarmi dalla caposala perché non capiva quello che dicevo. Mi sembra molto più bella – o me la ricordavo più brutta? Ma sono sicura che sia lei. Ha molta fretta e pasticcia, salta il mio turno e le dico che forse non l’ho sentita quando mi ha chiamato. Mi sorride mentre mi allaccia la cinghia.
Siedo guardando la finestra e mentre aspetto, sento la pancia che si arriccia e inizio inavvertitamente a soffiare. Il tracciato segna chiaramente un’ampia curva. La volta precedente erano delle scosse microscopiche che l’ostetrica aveva attribuito ai movimenti del bambino, e in effetti non avevo avvertito niente del genere.
Questa curva invece è un dato oggettivo. Non stavo sognando. È una contrazione. Leggera.
Mi sono commossa. 

Il malessere che mi portavo dietro dal parto della Stellina era l’idea che il sentirmi prigioniera, ed essere così completamente paralizzata dalla paura – del dolore del parto, di quello che avrebbe potuto farmi il personale, ma anche del mobbing, delle piccole meschine vendette lavorative, del timore di non farcela a sopravvivere se fossi emigrata all’estero, di tutte le prospettive terrificanti che mi venivano dipinte – mi aveva paralizzato anche l’utero. Ancora oggi rimango convinta del fatto che il travaglio non si era avviato perché ero terrorizzata all’idea di mettermi nelle mani di quelle ostetriche.
Ora la paralisi era finita. La mia piccola battaglia era già vinta. Tutto il resto sarebbe stato qualcosa in più.
Mentalmente, scrivo una lettera al baby dicendogli che poteva lanciarsi in quest’avventura. Perché il lancio nel vuoto che avevo provato nel gruppo di terapia, mi faceva molta paura e invece era stato eccitante e divertentissimo. Perché espatriare era eccitante e divertentissimo. Imparare un’altra lingua e comunicare da “immigrata”, era eccitante e divertentissimo. Perché quello che gli altri descrivono come impossibile, terribile e insormontabile – a volte è invece eccitante, e divertentissimo.
Segue un’altra onda nel tracciato.
Il ginecologo smorza i miei entusiasmi, quelle due curve “potevano” essere contrazioni, oppure essere dovute a movimenti del baby. Torno a casa un po’ abbacchiata. Faccio l’ennesima lunghissima passeggiata e mando un sms a Karin chiedendole che cosa mi avrebbe aspettato di lì a 3 giorni, data dell’induzione. Ho quest’idea in testa che aspettino circa 12 ore, ma vengo a sapere che dalla somministrazione di prostaglandine aspettano un giorno o più. L’idea di avere ancora tempo è una grande notizia per me! Non ho 3 giorni e mezzo, ma 4, forse 5. Poi sedendomi a cena mi dico che sono proprio sciocca a fissarmi sull’idea di partorire naturalmente: comunque nascerà mio figlio, sarà un lieto evento. Mando due e-mail a due colleghi in cui spedisco l’ultima versione dell’articolo che mi chiedono e avviso che per qualche giorno sarò silente.
Mi addormento in divano con un po’ di mal di schiena.

Verso l’una di notte mi sveglio sempre con un forte mal di schiena, faccio per alzarmi e andare in bagno e mi trovo in un lago di acqua trasparente. Ho un moto d’impazienza perché si sta replicando la stessa sequenza del parto della Stellina: rottura delle acque senza travaglio. Mi rassegno subito però: evidentemente sono fatta così. Sveglio Marlon che ha la mia stessa reazione, si alza e riflettiamo su cosa fare: è urgente andare in ospedale prima di qualunque cosa, quindi lui pensa a far mettere qualcosa addosso alla Stellina che dorme profondamente, arrivando a svegliarla. Lei è convinta che sia mattina presto e mi chiede se può portare un gioco a scuola, le diciamo che andiamo in ospedale a prendere il baby ed è estatica di felicità.
Saliamo in auto, percorriamo la strada deserta arrivando in ospedale in un baleno. È tutto deserto e prendiamo l’ascensore arrivando all’accettazione della sala parto, dove non c’è nessuno. Faccio stendere la Stellina sul divano e la copro con il mio cappotto, mentre suono il campanello e chiedo di entrare nella zona riservata. Trovo un’ostetrica molto gentile a cui do la mia cartella e spiego che mi si sono rotte le acque. Lei mi mette un braccialetto di riconoscimento e mi allaccia al monitoraggio cercandomi la vena. Guardando il monitor mi dice che ho “delle belle doglie”, ma io capisco invece che ho “delle belle vene”. Solo dopo vedo che sta guardando il monitor e sono molto sorpresa! Io, delle belle doglie?!? Sono irregolari ma sono “belle”. Lo scrivo via sms a Karin, che mi risponde che si terrà in contatto con il pronto soccorso ostetrico. Nella mia cartella clinica c’è scritto che faccio riferimento a lei.
L’ostetrica che mi ha accolta mi chiede se voglio lasciare mio marito e mia figlia fuori e mi dice che se vogliono, possono entrare. Quando la Stellina arriva, però, mi rendo conto che è un errore: è stravolta dal sonno, le salgono le lacrime agli occhi e mi dice che ha paura e vuole rimanere con me. La abbraccio e cerco di rassicurarla, quindi chiedo a Marlon di chiamare J., la nostra vicina che si era offerta di tenere la Stellina a qualunque ora. Li guardo allontanarsi mentre la Stellina guarda Marlon come se fosse impazzito. Qualche minuto dopo, l’ostetrica pasticcia con l’ago della flebo, sbaglia a inserirlo ed esce uno spruzzo di sangue “ Meglio che la bambina non abbia visto – commenta lei – meglio per i bambini in generale non stare qui dentro”, prosegue.
Sono in pensiero finché non vedo Marlon di ritorno. Mi spiega che la Stellina una volta scesa in atrio nell’ospedale ha chiesto di poter prendere una pallina alle macchinette ed è entrata in casa di J. chiedendo di dormire, e sembrava tranquilla. L’ostetrica mi spiega che mi hanno assegnato un letto e invita me e Marlon ad andare a dormire perché avremo bisogno di essere riposati. È importante rilassarsi e immaginare che tutto il bacino sia un canale morbido. Passeranno loro a darmi l’antibiotico e a farmi i controlli. Mi cambio e mi metto un vecchio copricostume di cotone che mi ha sempre fatta sentire a mio agio, perfino in spiaggia.
Mi danno una camera con due letti, sono da sola, chiudo gli occhi ma non c’è verso di dormire… continuo a pensare che avremmo dovuto aspettare l’assegnazione di una stanza e lasciare che la Stellina tornasse a casa con Marlon per terminare la notte con lui, oppure che sarei dovuta andare in taxi. Crollo verso le 3, mi sveglio intorno alle 5, fisso il cellulare aspettando le 6.30, quando lui dovrebbe avvisarmi che è tornato da J. a riprendere la bambina, e ha avvisato i nostri genitori. Finalmente l’sms arriva e riesco a rilassarmi, nel frattempo passano a darmi l’antibiotico in vena e mi spiegano che se voglio posso andare in sala parto a chiedere degli analgesici e fare un monitoraggio.
Non sono certa di aver capito correttamente, mi alzo e prendo l’ascensore, e con la bocca impastata in uno strano miscuglio di inglese e tedesco spiego all’ostetrica di turno che mi hanno detto di fare così. Lei mi guarda strano ma non mi manda via, mi fa entrare in una sala parto ma si attacca al telefono per rintracciare la ginecologa del piano di sotto.
Mi fanno stendere e allacciano il monitoraggio, nel frattempo si sono fatte le 8 e arriva Marlon. Mi dice che la Stellina voleva rimanere ancora da J. per poter giocare con i suoi figli e poi ha fatto la lotta con lui sul divano, entrando all’asilo tranquillamente aspettando l’arrivo dei nonni, i quali sarebbero partiti di lì a poco per andarla a prendere verso l’ora di pranzo. Ora è tutto a posto.
Dopo circa mezz’ora mi visitano: la cervice permette appena il passaggio di un dito: niente di nuovo per me. L’ostetrica prima mi chiede come ho trovato Karin e mi racconta che è bravissima e ha fatto nascere suo figlio. “Buone referenze”, rispondo io. Poi mi dice che se voglio può darmi qualche analgesico, nel frattempo la cosa migliore da fare è una piccola passeggiata, bere molto, e tornare al piano quando i dolori si sono fatti più intensi e non mi sento più a mio agio.
Non prendo medicine, ma il fatto che me le propongano mi rassicura. Scendo al pianterreno con Marlon facendo ben attenzione a girarmi sempre dal lato sinistro (Mi era rimasto il pensiero che la Stellina si fosse aggrovigliata col cordone quel giorno perché, dopo mesi di lato sinistro, inavvertitamente al monitoraggio mi ero coricata sul lato destro) e passeggio nell’atrio. Ci fermiamo a guardare una bacheca di libri, quando le fitte diventano più forti e devo fermarmi mentre cammino. Decidiamo di stazionare un po’ in camera prima di tornare in sala parto. In camera, trovo un’altra ragazza con il suo compagno – anche lei con le acque rotte, anche lei con contrazioni irregolari. Sono ormai le 10 passate e per un’ora mi esercito a cambiare posizione. Sento come se dei muscoli dentro la schiena formassero una mano che si chiude a pugno. Il compagno della ragazza è italiano e mi chiede sorridendo se penso di stare sempre in piedi, io però sono ormai convinta che muovermi sia indispensabile e mi alterno fra il bordo del letto e il davanzale della finestra.
Verso le 11 sembra che con questa ragazza ci siamo sincronizzate, perché abbiamo spesso contrazioni nello stesso momento. Ma ho anche l’impressione che da quando sono entrata lì, le contrazioni siano molto rallentate. Decido di tornare in sala parto, Marlon mi accompagna e l’ostetrica di guardia si congratula perché abbiamo resistito parecchio tempo. Mi allaccia di nuovo al monitoraggio e ci rimango circa un’ora. Alla visita, la cervice lascia passare due dita.
È pochissimo, quasi niente, ma vedo un progresso e tanto mi basta. Marlon mi propone di andare in camera per andare a prendere la cioccolata, io gli chiedo per favore di mimetizzare tutto usando una maglietta, ma le ostetriche se ne accorgono lo stesso, e ne ridono insieme a lui.
L’ostetrica torna dopo mezzogiorno, mi rivisita e trova tutto stazionario. Ci dice che queste non sono contrazioni da parto, probabilmente sono stanca e quando il corpo è stanco le doglie rallentano: mi stacca dal monitoraggio e mi suggerisce di tornare in camera e provare a dormire, e tornare su solo quando le contrazioni sono diventate regolari.
Sono sempre scettica: figurati se il mio utero è in grado di produrre delle contrazioni regolari. Comunque, se nulla si muove, per il mattino dopo è prevista una blanda induzione con prostaglandine.
Sapere di avere ancora diverso tempo a disposizione mi tranquillizza. Andiamo in camera e mi distendo a letto, mi portano da mangiare. Questa volta la stanchezza della notte si fa sentire e dormo davvero: dormo come un sasso per circa due ore.
(In questo lasso di tempo si affacciano in camera i miei genitori, che erano passati in ospedale a salutarmi, ma Marlon me lo dirà solo a parto avvenuto: lui li manda via, spero con una cortese spiegazione – anche se conoscendolo, temo che non abbia risparmiato loro un’occhiata di traverso)
Mi risveglio verso le 15, ma stavolta rimango ferma a letto, a guardare la televisione. Mi dico che in fondo non è detto che il mio utero non sappia riprodurre delle doglie regolari: d’altronde ho un cuore che svolge egregiamente il suo lavoro, da circa 40 anni. Mi chiedo poi se la presenza della ragazza possa aver avuto l’effetto di rallentare il travaglio, per via di quelle misteriose alchimie ormonali che sincronizzano il ciclo delle donne che dividono la stessa casa. Effettivamente, dopo che lei è uscita per il monitoraggio, verso le 17, le contrazioni cambiano. Si è ormai fatto buio e ho l’impressione che tornino più o meno con lo stesso intervallo. Per essere sicura chiedo a Marlon di annotare l’ora con l’orologio appeso al muro e siamo entrambi sorpresi dalla regolarità: una contrazione forte ogni 4 minuti, intervallata da una più piccola. Dopo circa quaranta minuti di cronometraggio, penso di poter tornare in sala parto a farmi vedere. Le contrazioni sono più intense e non riesco più a camminare, ma mi devo aggrappare a Marlon e chiedergli di mettersi completamente dritto per distendere la schiena. Riesco solo a respirare. L’ostetrica che ci vede commenta con un “Bene” – non so se l’intensità apparente della contrazione o il modo in cui ci presentiamo. Mi visita e mi ricorda che devo inspirare con il naso ed espirare con la bocca. “Come a yoga” faccio io, “Esatto! Come a yoga”.
Si tratta di riuscire a respirare fino al picco dell’onda, e nella seconda parte non contrastare il dolore restando irrigidita ma rilassare le gambe, immaginando di essere fatta di ricotta.
Anche stavolta mi tengono sdraiata con il monitoraggio attaccato per quasi un’ora. Chiedo a Marlon di riprovare i massaggi provati a casa e lui mi massaggia lungo tutta la colonna vertebrale. Gli chiedo di insistere sull’osso sacro, e scopro che se tiene la mano premuta lì, il dolore si riduce della metà. Via sms Karin mi scrive che se riesco a resistere senza farmaci fino a quando arriva lei è tutto di guadagnato per dopo. Quando finalmente posso muovermi, mi attacco a una “liana” appesa al soffitto e mi dondolo. Mi accorgo che anche qui il dolore è più forte verso l’osso sacro, e si riduce se faccio ruotare il bacino in avanti. (Con il senno di poi, mi sono chiesta se questo potesse essere il segnale che il bambino si stava incanalando male e ruotando il bacino riuscivo a correggere la postura. Cosa che l’ostetrica è riuscita a fare comunque, ma in un altro modo)
Entra una nuova ostetrica e mi chiede di stendermi di nuovo e stare attaccata al monitoraggio, mi spiega che aspettano a chiamare Karin quando il travaglio sarà entrato in fase attiva. Lei per arrivare all’ospedale impiega circa un’ora.
Improvvisamente dalla stanza accanto arrivano le urla di un’altra ragazza. (Per fortuna, sono molto diverse da quelle che ricordavo di avere sentito con il parto della Stellina. Quelle erano urla acutissime, tutte di testa, di dolore e terrore, e continuavano senza nessuna pausa per un tempo lunghissimo.) Sono urla viscerali e ritmiche, le riconosco come le urla della fase finale. Non mi fanno paura, ma mi copro le orecchie per non sentirle, aspettando il pianto del neonato. Neppure mi sento solidale con lei pensando che di lì a poco sarebbe toccato a me, ma penso che mi distrae e basta e dico a Marlon che le sparerei per farla smettere! Finalmente si sente il pianto.
Cerco di riportare la mente alle immagini che mi ero costruita in gravidanza per affrontare il travaglio: la gara, il viaggio… ma l’unico pensiero che davvero mi mette serena è che sono nel posto giusto. Continuerò a ripetermi questa frase finché riuscirò a pensare.
Alla visita successiva, l’ostetrica ci dice che la cervice è arrivata a 4 centimetri, unendo pollice e indice a formare un “OK” per mostrarci quant’è larga. Sono sempre distesa sul lettino allacciata, distesa sul fianco sinistro, e continuo per non so più quanto tempo ad aspettare l’onda e a chiamare Marlon perché venga a premermi l’osso sacro, mentre io inspiro ed espiro, e dopo che è passato il picco, cerco di ricordarmi di rilassare le gambe.
Non so quanto tempo è passato così, forse un’ora. Ricordo che sono mezza addormentata quando nel buio vedo comparire i capelli biondi di Karin, che mi accarezza la testa. Sono grata di vederla lì, le stringo la mano e lei risponde alla stretta. Sono sempre incredula: ora tutto è cominciato per davvero.
Karin ha una boccetta di olio da massaggio e mi massaggia la schiena con movimenti veloci, fermandomi invece quando respiro troppo velocemente e inizio ad ansimare, ricordandomi di respirare… leeentamente. A un certo punto mi sento un formicolio su tutto il viso, e lei mi spiega che è proprio perché sono andata in iperventilazione. Mi copre con una coperta avvolgendo i piedi in due asciugamani caldi. Marlon si mette seduto a fianco del lettino e si alza ogni volta che lo chiamo per tenermi premuto l’osso sacro.
Siamo andati avanti in questo modo forse per un’altra ora. Mi viene la nausea e ho voglia di vomitare, mi spiegano che significa che l’utero sta lavorando bene in alto e va a toccare il diaframma. A un certo punto avviso Karin che mi scappa di fare la pipì e la cacca e chiedo di staccarmi dal monitoraggio per potermi alzare e andare al bagno. Lei risponde che potrebbe già essere il bambino e mi fa distendere sulla schiena per visitarmi. In questo modo però le contrazioni fanno molto più male e inizio a urlare in maniera stridula – lei mi ferma, mi fa tornare a respirare e intanto mi visita e tiene la mano dentro di me, spiegandomi che vuole “scambiare due parole” con la mia cervice. Non riesco a fare pipì da stesa e mi mette un catetere. Quando l’ha tolto, mi chiede di tornare sul fianco sinistro e mi domanda dove sento più forte il dolore: se davanti, in mezzo o di dietro. Io rispondo che lo sento battere dietro, tranne quando Marlon spinge il sacro – allora si sposta davanti. Lei mi fa appoggiare la gamba destra sulla staffa sinistra del lettino in modo che io rimanga distesa sul fianco, ma con le gambe aperte: da adesso in poi sento spingere verso il centro. “Era quello che volevamo”.
Dopo un po’ di tempo, mi accorgo che le contrazioni diminuiscono di numero e intensità. Entra una ginecologa, che guarda il tracciato e scuote la testa. Karin ci spiega che l’ha chiamata perché la testina del bambino è scesa e si può fare un prelievo di sangue per vedere se si può andare avanti. Mi dico “Ok, è stato bello finché è durato, ora mi prepareranno per il cesareo”. L’esame è fastidioso perché la testina è ancora indietro, sento il baby che scalcia e mi chiedo se gli stanno facendo male e se ne valga la pena. Il risultato è negativo: possiamo continuare.
Allora Karin mi dà dei granuli omeopatici e prepara un’endovena con cui dice che mi potrei sentire come “fumata” – chiedo se è morfina e risponde che è una sostanza simile. Mi spiega che il bambino ha ancora bisogno di tempo e io devo riposare, perché le contrazioni tornino efficaci.
Dopo qualche minuto effettivamente inizia a girarmi la testa e mi addormento. In sogno parlo con mia zia: è giovane, e tiene per mano mio cugino che ha circa due anni.
Mi svegliano le contrazioni. Karin fa stendere anche Marlon sul lettino da parto in modo che riesca a premermi l’osso sacro senza sforzo. Mi chiedo quando arriveranno le contrazioni che mi faranno chiedere l’epidurale, e mi rispondo che sembra tutto talmente precario che posso solo pensare al presente, ci penserò quando sarà il momento. Ma non passa molto tempo che la natura del dolore cambia completamente. Non so nemmeno descrivere quello che sento – so solo che non riesco a smettere di gridare, aggrappandomi a una maniglia del lettino. Ormai nemmeno la pressione sul sacro fa più effetto, grido come la ragazza della stanza a fianco qualche ora prima. Una parte della mia mente è ancora libera per pensare – che ci siamo, siamo arrivati alla fine, e sono ancora incredula.
Che siamo alla fine me lo conferma il fatto che Karin non mi corregge più, mi chiede invece di tornare a stendermi a pancia in su, vedo entrare due ginecologhe e altre due ostetriche. Stavolta però il dolore mi sovrasta. Chiedono a Marlon di tenermi la testa e a me di allargare le gambe con le mani, trattenere il respiro e spingere. Marlon mi spiegherà poi che mentre ero in questa posizione fanno un altro prelievo di sangue dal baby. Karin continua a ripetermi “Rilassati, lascia che accada”.
Sento effettivamente qualcosa che pesa sul bacino, mi giro e dico a Marlon che sono arrivata a quel punto dello sketch di Debora Villa, quando dice che l’hanno presa in giro e non potrà mai uscire niente di lì.
Alla contrazione successiva Marlon inizia a urlarmi nell’orecchio che si vede la testa, io però non sento niente, non capisco più niente e senza accorgermene inizio a chiamare “Mamma” (Anni fa, sul treno Trieste – Taranto, un vecchio marinaio in pensione raccontava al vagone le sue vicissitudini e spiegava che quando un uomo ha veramente paura non chiama aiuto – chiama mamma) La voce di Karin mi scuote, torno a vedere la stanza buia e la luce potente della lampada, i capelli biondi di Karin vicino a quelli neri della ginecologa spagnola seduta di fronte a me.
Karin mi grida “Tua mamma non può fare niente per te qui, devi farlo TU!”
Vedo un tunnel con una luce in fondo, spingo più forte che posso mentre Marlon mi urla nell’orecchio come se fosse alle Olimpiadi. Sento effettivamente qualcosa che esce, ma non capisco come posso stare rilassata e spingere contemporaneamente e a un certo punto mi prende lo sconforto e soffio “Non capisco! Non ce la faccio!” Alla contrazione successiva Marlon urla che la testa è fuori, e in un istante un rumore di acqua, qualcosa scivola fuori – e vedo il corpo del bambino sospeso per aria con il cordone ombelicale.
Lo vedo e non ci credo. Marlon traduce e scoppiano tutte a ridere: “Se non ci avessi creduto tu per prima, non saremmo qui”. (E’ stato tutto talmente veloce che mi pare impossibile che sia venuto fuori come da solo. In realtà un istante prima mi avevano fatto un’episiotomia, ma non me ne ero nemmeno accorta e lo scoprirò solo poi vedendo la cartella clinica)
Me lo appoggiano sulla pancia, non posso tirarlo verso di me perché il cordone è troppo corto e bisogna che abbia smesso di pulsare per tagliarlo. Benedetto cordone corto che non si è aggrovigliato, penso, eppure mi dispiace perché il baby mi guarda e non posso prenderlo in braccio.
Non lo riconosco. È un viso nuovo, con gli occhi a mandorla, i capelli neri e un’espressione presente, da bambino grande – come vedere una foto dal futuro. Lo accarezzo, lui mi guarda con due occhi grandi e spaventati e fa la smorfia del pianto, provo a dargli il seno ma sembra che non capisca. (Ricordo che anche la Stellina appena nata era presente, quasi adulta, la sua espressione incazzata nera non aveva nulla a che vedere con le smorfie da neonata che avrei visto qualche ora dopo)
Le ostetriche si congratulano perché ha una bella voce e la ginecologa dice a Marlon che con quell’incitamento veniva voglia di spingere perfino a lei.
Finalmente possono tagliare il cordone ombelicale ed esce la placenta, ci chiedono se vogliamo portarcela a casa – io e Marlon ci scambiamo uno sguardo perplesso e rispondiamo di no, loro ridono, a quanto pare è una richiesta nuova per loro, a cui si sono adeguati. Portano un letto in sala parto e riconosco dall’etichetta sulla sbarra che è il letto della mia camera: mi fanno stendere lì e dopo un’ecografia alla cicatrice del cesareo per escludere lacerazioni, rimango in reparto per circa un paio d’ore, mentre misurano e pesano il baby, poi lo danno in braccio a Marlon e a me. Lo tengo sotto le coperte: finalmente si calma e si attacca al seno.
Arriva un infermiere grande e grosso che viene incaricato del trasporto del mio letto, con me e il piccolo sotto le coperte in un viaggio attraverso il corridoio e l’ascensore, poi un altro corridoio e infine la camera – dove non trovo l’altra ragazza e indovino che ora è il suo turno. Sono circa le cinque del mattino. Marlon e io ci guardiamo: in questa ultramaratona che abbiamo fatto in due non abbiamo mai perso il buonumore. Manda un sms ai nostri genitori avvisandoli che è nato Attila, o forse dovrei dire – il Piccolo principe. Viene allora un’infermiera a prenderlo per vestirlo, lo rivedrò dopo circa altre due ore, con il pannolino e un asciugamano a fasciarlo. Sarà un neonato rugoso e sonnacchioso.
La Stellina arriverà qualche ora dopo: i nonni hanno mantenuto il segreto e arriverà lì con Marlon, con la stessa estasi di gioia di quando eravamo arrivati in ospedale. Chiederà di prendere in braccio il fratellino e gli canterà una canzone improvvisata, in cui sono tutti contenti della sua nascita e che per carità stia attento a non toccare il fuoco, perché il fuoco scotta. Il piccolo principe Attila si lascerà cullare e abbozzerà un sorriso sghembo, sebbene abbia solo poche ore.

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