BLOP! E' stato proprio il rumore a svegliarmi: un suono attutito, interno ma estremamente nitido. Ho sentito qualcosa di caldo e umido; istintivamente ho guardato l'orologio. Le due del mattino. Il dubbio c'era, ma mi sembrava addirittura ridicolo prenderlo in considerazione. Più di tre settimane prima... non poteva essere... Ho svegliato comunque Massimo e insieme abbiamo cercato di capire quello che stava succedendo. Solo poche ore prima eravamo andati dal medico, per uno degli ultimi controlli. - Tutto tranquillo. Sei un po' anemica. Ci vediamo tra dieci giorni. Un liquido trasparente e cristallino si depositava senza fretta tra le mie ginocchia e lasciava orme di un rosa pallido. Chissà perchè succede sempre di notte: proprio come nei classici della letteratura. Mancava soltanto un fragoroso temporale con tanto di tuoni terrificanti: la prossima volta bisognerà ordinarlo per tempo. Noi eravamo più che altro divertiti ed increduli. Per una buona mezz'ora abbiamo immaginato la scena: l'ambulanza, la gente svegliata "nel cuore della notte", l'ingresso in ospedale... Le nostre fantasie si concludevano con una solenne figuraccia; ci rispedivano a casa con malcelata insofferenza.
- Queste primipare... - Della serie: Tanto rumore per nulla.
Eppure il dubbio restava. Una telefonata in reparto per sentirsi dire di non aspettare ancora. Mentre ero al telefono Massimo, come sempre nei momenti cruciali, era impegnatissimo a riordinare la camera. Piegava i maglioni rimasti sul paravento la sera prima, sistemava i libri ed i giornali sparsi un po' dappertutto. Fare ordine intorno a sè per chiarirsi le idee.
Naturalmente trovare il numero di telefono della Croce Verde si è rivelata un'impresa impossibile, così abbiamo deciso di arrangiarci da soli. La valigia era già pronta da qualche giorno (non si sa mai...), forse me lo sentivo...
Vestendoci, ogni tanto incrociavamo gli sguardi e ci veniva da ridere, in fondo non riuscivamo a prenderci sul serio in questa nuova parte che non avevamo avuto nemmeno il tempo di provare.
Del resto l'improvvisazione è sempre stata il nostro forte. (E poi chi l'ha detto che è facile improvvisare? Ci vogliono anni ed anni di esperienza alle spalle; chiedetelo ad un qualsiasi musicista!)
La lancia dell'ospedale ci avrebbe aspettato a Piazzale Roma. Nessun problema.
- Ma tu come ti senti?
- Bene.
Non avvertivo nessuna sensazione dolorosa. Soltanto, se proprio si vuol sottilizzare, una vaga compressione circoscritta al basso ventre, come nel periodo mestruale. Niente di più.
Massimo non ha mai guidato così dolcemente. Lo sentivo vicino, estre mamente coinvolto da quello che stavamo vivendo, ma allo stesso tempo tranquillo. Chi ci avesse visto uscire di casa a quell'ora non avrebbe mai potuto capire dove stavamo andando (a parte il pancione, a parte la vali gia...).
Siamo scesi con la macchina in fondamenta: per la prima volta motorizzati fin sulla riva del Canale Grande! Il motoscafo ci aspettava: facce un po' assonnate ma comprensive.
- Mi dispiace per la levataccia!
- Signora, ghe semo abituai!
Era già pronta per me una poltrona a portantina, ci mancavano soltanto due cinesi per fare tanto Shangai, ma io in reparto ci sono arrivata con le mie gambe, dopo una bella corsa a tutto gas in laguna. Chissà perchè alla parola partoriente premono l'acceleratore anche se la diretta interessata sta benone ed è estremamente rassicurante.
Due infermiere non proprio sorridenti (erano le tre e venti del mattino!) ci sono venute incontro. Un'atmosfera soft ci ha accolto. Il corridoio deserto, le stanze immerse nel sonno, il silenzio notturno suggerivano voci sommesse, appena percettibili.
Per prima cosa, come sempre in ospedale, mi è stato detto di spogliarmi: pare che se non si è in divisa non possa accadere proprio nulla. Ed è stato allora, soprattutto dopo la tricotomia, che io e Max abbiamo cominciato a sospettare... troppi preparativi per un falso allarme!
- Nasce prematuro, vedrai che lo metteranno in incubatrice.
Questo era l'unico pensiero negativo, l'unico aspetto preoccupante della situazione. Ma è durato un attimo: non volevo caricarmi di ansia. Un sorriso, la mia mano tra le sue, calde e tranquille, ed era già tutto dietro le spalle, esorcizzato nella consapevolezza.
Distesa sul lettino, in sala travaglio, ascoltavo il cuore di mio figlio amplificato dal monitor: un battito regolare emergeva da un sottofondo liquido di onde; ogni movimento era un colpo più forte, vigoroso. Mentre aspettavamo che arrivasse l'ostetrica per la prima visita, Massimo controllava il tracciato del monitor.
- Come sono le contrazioni?
- Piccoline, quasi non si vedono. - Infatti erano appena percettibili, dolci e brevi.
Alle quattro è arrivata l'ostetrica, simpatica e rassicurante. Con la cartina di tornasole ha cercato di verificare se quelle che stavo ancora "perdendo" erano effettivamente le famose "acque", ma senza fortuna: il test dava risultati poco chiari. Alla fine, più che affidarsi alla chimica, si è basata sulla sua esperienza: il sacco, in ogni caso, si era rotto. La prima visita ha evidenziato una dilatazione quasi inesistente.
- Neanche un centimetro, però il collo dell'utero comincia ad appianarsi. Probabilmente partorirà nel pomeriggio.
Dunque ne avevo di tempo e del resto, si sa, le primipare sono sempre più "lunghette". Ostetrica ed infermiere cercavano di convincere Massimo ad andare a dormire, magari soltanto per qualche ora. Io dolori non ne avevo (sentivo sempre e soltanto quel vago malessere all'inguine). Si è deciso che sarebbe andato a parcheggiare meglio la macchina a piazzale Roma, ma per tornare subito da me. Per nessun motivo volevamo rinunciare a vivere insieme la nascita di nostro figlio.
Così lui è uscito, le infermiere hanno spento il monitor e se ne sono andate a dormire raccomandandomi di fare altrettanto: dovevo cercare di riposare. Sono rimasta sola col mio pancione nel silenzio della notte, ad occhi chiusi mi ascoltavo e pensavo che tante ore dovevano passare prima di poter conoscere il mio bambino. Ero serena e piena di energia nel più completo rilassamento.
Piano piano, in modo dolce e graduale, ho avvertito le prime contrazioni: partivano dall'inguine per poi estendersi alla pancia interessando anche la parte conclusiva della spina dorsale. Seguivo il mio respiro, ripetevo mentalmente - Sento il mio respiro, ci sono dentro, il respiro mi respira - come una cantilena. Lasciavo che il mio corpo si abbandonasse completamente, senza contrastarlo in alcun modo. Avevo molta fiducia nella natura e nella sua capacità organizzativa. In fondo io non dovevo fare altro che assecondarla e lasciarla lavorare in pace.
Controllavo con l'orologio la frequenza delle contrazioni. Ricordo la prima alle cinque in punto, la seconda alle cinque e cinque, la successiva alle cinque e dieci... Con una regolarità che mi stupiva l'utero si contraeva ogni cinque minuti. Sapevo che era un buon segno: la dilatazione era iniziata. Avrei voluto chiamare l'ostetrica per controllare al monitor l'entità di queste prime contrazioni e soprattutto la loro efficacia, ma non sapevo come. Campanelli non ne vedevo, non potevo alzarmi a causa della lacerazione del sacco amniotico, di mettermi ad urlare non ne avevo proprio voglia. In fin dei conti dominavo interamente la situazione, meglio aspettare.
- Il respiro mi respira, sento il mio respiro, ci sono dentro...
Chiudevo gli occhi e mi concentravo sull'immagine che avevo fissato meglio durante l'apprendimento del RAT: distesa su una barca mi abbandonavo al dolce dondolio delle onde in una calda, luminosa giornata d'estate.
Alle sei è tornato Massimo. Era riuscito fortunosamente a rientrare in ospedale eludendo la vigilanza di un portinaio assonnato. Le contrazioni erano più forti e gli ho chiesto di chiamare l'ostetrica: volevo che mi collegassero al monitor per capire a che punto fosse il travaglio. Quello che sentivo non riuscivo a viverlo come dolore, del resto, se il parto era previsto per il pomeriggio - mi dicevo - il bello doveva ancora arrivare. Un bacio, una carezza - Mi raccomando stai tranquilla - e il mio amore se ne andava di nuovo, in missione speciale.
Per due volte è tornato da solo: tante porte lungo il corridoio silenzioso e in penombra, nonostante le prime luci dell'alba; aveva infilato la testa qua e là, ma senza risultato.
Ed ogni volta: - Come va? - Dopo il mio sorriso se ne usciva di nuovo rassicurato.
Alle sei e mezza ha finalmente scovato le infermiere e dopo poco sono stati tutti intorno a me. Il monitor non rivelava progressi consistenti: il tracciato segnalava delle contrazioni regolari ma non molto accentuate. Per qualche minuto io e Massimo lo abbiamo seguito insieme mentre l'ostetrica compilava dei moduli e la cartella clinica. Ogni tanto ci rivolgeva qualche domanda: ricordo di aver delegato lui a rispondere, io ero troppo impegnata nel training e non volevo perdere la concentrazione.
E' stato a questo punto che si è posto concretamente il problema del nome. Ne avevamo parlato tanto durante gli ultimi mesi, ma non eravamo giunti a nulla di definitivo anche perchè c'era ancora tempo (almeno così pensavamo). Per la femmina era quasi deciso Angela, come la nonna - amatissima - di Massimo; per il maschio io, da sempre, avevo fantasticato su Rocco (radice scandinava, "uomo forte") ma non avevo ancora ottenuto il pieno consenso paterno. E così in pochi secondi è diventato Angela o Rocco, questo figlio che stavamo finalmente per conoscere.
Mi doleva la schiena nella posizione forzatamente supina imposta dal monitoraggio: desideravo stendermi su un fianco. Spenta la macchina sono stata visitata ed a questo punto la grande rivelazione!
- Signora, andiamo bene! C'è una dilatazione di cinque centimetri. Vedrà che nasce per l'ora di pranzo!
Nessuno se lo aspettava, forse perchè stavo buona buona e zitta zitta, tutta presa dalle sensazioni che mi coinvolgevano completamente. Non controllavo più sull'orologio la frequenza delle contrazioni, ma le avvertivo sempre più ravvicinate. Avevo appena il tempo di rilassarmi da una che ne arrivava un'altra. Mi dava un po' fastidio sentire parlare intorno a me, ma questa è l'unica sensazione negativa che ricordo. Per il resto ero introiettata dentro me stessa, dentro il mio corpo.
Le infermiere hanno chiesto a Massimo di consegnare il corredino che avevamo portato per nostro figlio. Mi ha fatto uno strano effetto vederlo maneggiare scarpine, magliette, camicini microscopici; una tenerezza che adesso può sembrare di maniera, ma che era, in quel momento, autentica, intensissima.
Sono trascorsi non più di venti minuti. L'ostetrica era accanto al mio letto che espletava con Massimo le ultime formalità quando ho sentito una contrazione diversa dalle altre. Molto più forte, prendeva tutta la pancia e con una straordinaria energia si concludeva verso il basso, verso la zona perineale.
- Mi viene da spingere. Cosa devo fare?
Era un po' presto per le spinte, dovevo contrastarle, per permetter un'ulteriore visita manuale che evidenziasse l'evolversi della dilatazione. Mi sono sentita un po' scolaretta diligente mentre soffiavo ritmicamente, a brevi intervalli, come mio avevano insegnato al corso propedeutico.
- Brava, va benissimo così! - Io, proprio io che ero sempre stata una pessima allieva in educazione fisica, mi stavo comportando bene.
Un'altra visita ed un'altra sorpresa.
- Siamo a dieci centimetri! Adesso, quando sente la prossima contrazione, spinga. Nell'intervallo si alzi che ci avviamo in sala parto.
Era arrivato il momento. Mi sentivo eccitatissima, felice. Ricordo di aver guardato l'orologio: le sette del mattino, più o meno. Qualcuno deve aver telefonato al ginecologo di turno, ma ho seguito poco ciò che accadeva intorno a me, ero troppo impegnata.
Quando ho sentito arrivare la contrazione, aiutata da Massimo che mi sorreggeva la testa in modo da chiudere l'epiglottide per l'apnea necessaria, ho spinto con tutte le mie forze, ma tranquillamente, senza concitazione. L'avevamo provata tante volte quella scena, a casa, che ormai la tecnica di spinta ci era familiare, ma - almeno per me - del tutto nuova era la sensazione che provavo: un insopprimibile, primitivo desiderio di spingere, di farlo nascere questo bambino. Era giunto il momento che si staccasse da me ed io con tutte le mie forze volevo che nascesse, non pensavo la dolore, era naturale, quasi non lo sentivo, volevo soltanto fare uscire mio figlio, tutto il resto non esisteva.
Esaurita la contrazione mi sono alzata. Sorretta dall'ostetrica mi sono avviata a piedi verso la sala parto. Un corridoio, pochi passi, eppure sulla soglia ho avvertito un'altra spinta.
- Niente paura, spinga pure. Si regga allo stipite della porta. Vedrà che stare in piedi l'aiuterà -. L'avevo letto, lo sapevo, quindi mi sembrò naturale: anche la forza di gravità avrebbe fatto nascere mio figlio.
Massimo, che mi seguiva, stava aspettando l'equipaggiamento per essere ammesso in sala parto: gambali, berretto e camice sterili. L'infermiera non riusciva a trovarli, o semplicemente trascurava il problema, finchè è intervenuto il medico (che nel frattempo era arrivato):
- Ma insomma, qualcuno si occupi anche di questo papà, altrimenti non vedrà nascere suo figlio !
Tutto si svolgeva molto rapidamente, infatti ero già seduta sulla sedia quando ho visto arrivare Max in una tenuta a dir poco ridicola. E' stato bello, in quel momento, trovare il tempo e la voglia di ridere insieme di quel berretto calato sulla fronte e sopra le orecchie "alla fratelli De Rege". Si è subito avvicinato a me e mi ha sorretto la schiena durante le spinte. Io mi tenevo alla sedia, ero così concentrata che non mi sono accorta che, tra una contrazione e l'altra, qualcuno mi aveva applicato sul braccio destro la flebo di ossitocina.
Ero completamente padrona del mio corpo: non ho mai provato nella mia vita una sensazione di potenza così totale. Sentivo arrivare la spinta, avvertivo chi mi stava intorno, trattenevo il respiro e spingevo in tre fasi, durante la contrazione, fermandomi soltanto per riprendere fiato. Proprio come avevo imparato al corso propedeutico. Tutto stava procedendo come lo avevo immaginato.
- Si vede la testina! Ha i capelli neri!
L'unica sensazione che ho vissuto come veramente dolorosa (forse perchè, essendo un intervento esterno, lo sentivo come un'intrusione) era la dilatazione manuale che di tanto in tanto veniva praticata dall'ostetrica intorno alla testa del bambino. Ricordo di averle allontanato infastidita la mano durante una pausa, forse con un gesto un po' troppo brusco. Ricordo anche di essermi scusata per dei gridolini che non riuscivo a trattenere durante la spinta, dovuti più allo sforzo che al dolore (del resto sopportabilissimo). Come quando, sollevando un peso, si grida oooh issa! per aiutarsi. Volevo più che altro rassicurare Massimo, fargli capire che andava tutto bene, che non stavo soffrendo, che ero felice.
L'ultima spinta è stata potente: non credevo di possedere tanta forza dentro di me. Il bambino, contrariamente a quanto succede di solito, è uscito di getto, quasi proiettato nel mondo; l'ho visto balzare di colpo tra le braccia dell'ostetrica. Non ha voluto rispettare i tempi canonici (prima la testa, poi le spalle...) aveva fretta di vivere, come sua madre.
D'istinto ho guardato l'orologio: le sette e venti del mattino.
- E' un maschio!
E' nato Rocco! Quello che per me, forse - me ne stavo rendendo conto solo in quel momento - era sempre stato Rocco.
Una sensazione fisica stupenda, mentre usciva, liberatoria, molto simile a quella dell'amore, altrettanto coinvolgente. Una gran pace, una gioia infinita, vederlo appoggiato sul mio seno, sentire il suo pianto calmarsi immediatamente appena mi ha toccato pelle contro pelle, vedere Massimo chinarsi a baciarlo sulla testina piena di capelli neri con gli occhi rossi di pianto. Piango anch'io, per la prima volta nella mia vita di gioia.
Gioia perchè è sano, perchè è Rocco; ma anche perchè ce l'ho fatta!
Annalisa Bruni
(c) Istar Rivista Multidisciplinare sulla Nascita, 1(1), 1990
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