Quando ti sposerai e avrai dei figli…» era una delle frasi ricorrenti di mia nonna. Come una pioniera del Far West aveva scodellato nel suo letto, senza nessun aiuto e nessunissima difficoltà, quattro figlie perfette. Diventare madre era, a suo dire, la realizzazione delle aspirazioni femminili.
Seduta di sghimbescio sulla sedia in ospedale, con l’aria mesta e sbattuta di chi ha attraversato un uragano, la più giovane delle sue figlie mostrava ben altra opinione: «Non avere mai figli, per carità!».
Forse è per questo che non ho pensato alla maternità senza un fremito di orrore fin oltre la soglia dei trent’anni. A quel punto avevo un dottorato di ricerca, un lavoro co. co. co. e una coscienza femminista, per cui mi illudevo di saper gestire senza problemi un figlio in arrivo. Vivevo da sola. La gravidanza, desiderata, fu condivisa festosamente dalla comunità delle mie amiche. Insieme a loro andavo ai controlli periodici e al corso di preparazione al parto, circondata da coppie più giovani di me che intrecciavano sui pancioni le dita con la vera nuziale.
Mi preparavo al parto come a un esame all'università.
Avevo letto molto, preso appunti, preparato il corredino, fatto la ginnastica per gestanti. Con la sindrome presuntuosa della prima della classe, anche stavolta ero “brava”: perché il mio aumento ponderale era contenuto (difficile sgarrare, con cinque ragazze intorno a contarmi le calorie!). Il bambino, un maschio (pazienza), cresceva bene, e il suo cuore minuscolo galoppava come gli zoccoli impazienti di un puledro. Io e mio figlio eravamo pazienti modello tendenti allo spericolato. I malesseri gravidici, le nausee, le voglie incontrollabili, gli sbalzi d’umore? Mai avuti. Fino all’ultimo non smisi di nuotare né di pedalare nel traffico del centro cittadino.
Tuttavia, al termine della mia gravidanza da manuale il bambino non nasceva. Passarono due settimane. Era agosto, molto personale era in ferie, e le ecografie venivano eseguite velocemente. All’inizio della terza settimana controllarono il liquido amniotico: non ce n’era più; in compenso c’erano segni di sofferenza fetale. Mi compilarono una richiesta di ricovero urgente, dicendomi però di tornare dopo un paio di giorni perché in quel momento proprio non c’era posto. A meno, ovvio, di conoscere qualcuno.
Piombai nel panico: mio figlio stava morendo, e nessuno lo aiutava. La zia mi accompagnò, con la richiesta di ricovero urgente, presso un altro ospedale cittadino rinomato per il parto naturale e il rooming in. Quando mi accettarono, promettendomi l’induzione per il mattino dopo, sospirai sollevata. Quando mi attaccarono la flebo di ossitocina al braccio facevo la spaccona con il padre di mio figlio; però dopo due ore di flebo, ancora niente. Rottura del sacco amniotico con l’uncino: niente. Aumento della dose di ossitocina: le doglie arrivarono all’improvviso, violentissime. Provavo invano tutte le posizioni imparate durante il corso per alleviare i crampi.
Presto il dolore fu una condizione esistenziale con picchi che mi fendevano di netto. Il corpo un fascio di dolore animalesco che non controllavo più. Urlavo. Un ginecologo con l’aria ipercurata da modello di Pitti Uomo scosse la testa commentando: «La solita bambina viziata!». Quattro ore di quella tortura, e niente dilatazione: «È colpa tua, non spingi!». Aumento dell’ossitocina. L’ostetrica del turno successivo, che aveva lo stesso nome di mia nonna, ordinò perentoria che mi venisse praticata l’anestesia epidurale per darmi sollievo. Riuscire a immobilizzare il corpo squassato per il tempo necessario a ricevere un’iniezione che poteva danneggiare i nervi spinali non fu uno scherzo; poi però il dolore scomparve come per magia. Pensai a Nanni Moretti, Aprile, e “l’epidurale per tutti! ”. La felicità è la breve tregua fra due fitte lancinanti, annotai fugacemente nel mio Zibaldone mentale.
Il ginecologo commentò: «Speriamo che basti: Altrimenti, signorina, quanto ci costa il suo parto?». Non fece in tempo a finire la frase: «Il bambino sta scendendo!», gridai. Cominciai a sentirmi svenire. Caos. «È rimasto incastrato, ho perso il cuore!» «Il cesareo, il cesareo!» «Non si può più, è tardi, è sceso troppo in basso!» «Perdiamo anche lei!». Medici che correvano da tutto il reparto. Mani mi adagiavano su una barella, di corsa in sala operatoria. Ventosa. Bisturi. Persone galleggiavano sulla mia pancia. «Uno, due, tre!» «Spingi!».
Il sangue schizzò dappertutto, sul pavimento, sulla maglia e le scarpe del padre di mio figlio, sul suo viso. «Non respira!» «No, no, ecco!». Urlò, il mio bambino. La sua voce ridava vita a me che non ne avevo più nemmeno un soffio. Il suo cuore di leoncino lottatore ce l’aveva fatta. Cranio livido e gonfio dove la ventosa l’aveva arpionato. Occhi blu, indagatori, lunghe ossa scarne. La placenta era invecchiata, uno schifo, e io anche. «Quanti punti di sutura mi dà?», domandai in un soffio al ginecologo, come mi avevano insegnato a fare al corso. «Tre», rispose.
Il rooming in: non riuscivo a camminare, non avevo latte; mio figlio piangeva, disperato per la fame. Perdevo fiumi di sangue; colava dagli assorbenti, macchiava lenzuola e camicie da notte. Il primario mi intimò di cambiarmi più spesso: quell’aria da assommoir nuoceva all’immagine del reparto. Violai le regole: anziché tenere il bambino nella culla metallica lo posai nel mio letto. Solo il calore del mio corpo devastato potevo dargli, e il battito del cuore. Lui teneva già dritta la testina: sbatteva tenace contro il mio seno nella vana ricerca di cibo. Cercava e cercava, gli occhi chiusi come una piccola talpa. Dopo qualche giorno trovai il coraggio di toccare quelle parti del mio corpo che più facevano male. Due strappi, uno che congiungeva la vagina all’ano, un altro dalla vagina alla coscia destra. La sutura arrivava fino al muscolo adduttore. Altro che tre punti.
Mi rimandarono a casa dopo cinque giorni. Ancora non avevo latte, non camminavo, avevo dolori fortissimi in corrispondenza dei punti. La mia ginecologa al ritorno dalle ferie: «Ma cosa ti hanno fatto..? Io un’episiotomia così non l’ho mai vista…». I punti erano almeno cinquanta, l’ano lacerato ma non ricostruito, lo sfintere andato. Giorno dopo giorno, un altro calvario; in confronto il parto era stato uno scherzo. Ore a combattere le fitte. Non riconoscevo più il mio corpo, un grumo contorto. Ma intanto un po’ di latte era arrivato: il bambino ci si attaccò come un’idrovora e prese a fiorire.
Al lavoro pensarono fossi un’assenteista, la classica donna che approfitta della gravidanza per “chiamarsi fuori” dagli impegni. Alcune amiche sospettarono con disapprovazione che mi fossi trincerata nel nido con mio figlio e suo padre.
Persi così l’amica che più amavo, e mi manca ancora adesso. La mia vita cambiava, e non potevo farci niente. Inventavo ora per ora strategie per ridurre il dolore, per riappropriarmi di me stessa. Tre mesi dopo il parto, un gastroenterologo lungimirante propose, in alternativa a una chirurgia spericolata e dall’esito dubbio, la terapia con un farmaco sperimentale da acquistare a San Marino. Ma il mio corpo non è più stato quello di prima.
È passato molto tempo da allora. Il mio secondo figlio è nato con un cesareo d'elezione. Mentre mi appoggiavano alla guancia il piccolo, tiepido e furente per essere stato strappato dal mio ventre al settimo mese, piansi di gioia. Stavo bene, potevo vivere la maternità come una gioia, non come un trauma indimenticabile che segna per sempre.
Quando sento un ginecologo pontificare sul “parto naturale” desidero schiaffeggiarlo. Conosco, sì, donne che hanno partorito in tempi brevi, e magari senza punti. Sono però una netta minoranza, rispetto alle “altre”, a quelle come me. Il punto è però che un cesareo costa più di un parto “naturale”; un cesareo fa statistica in negativo, per un ospedale.
La conseguenza è un indegno gioco d’azzardo sul corpo delle donne. Ci sono migliaia di storie simili alla mia. E cartelle cliniche che, come la mia, perpetrano una vergognosa menzogna: accanto al nome del mio primo figlio sta scritto infatti “parto spontaneo”.
Aglaia Viviani
(post originale)
Mia nonna ha partorito 10 figli senza alcun bisturi. La natura ti ha chiesto un sacrificio e tu l'hai accettato, bisogna essere forti e pensare sempre che poteva andare peggio. :)
RispondiEliminaAnonimo, è gradito un nick. Che cosa intendi dire con "la natura ti ha chiesto un sacrificio"?
RispondiEliminaandare peggio ovvero? qualche esito tragico? il commento di anonimo si commenta da solo per la mancanza di umanità che esprime,
RispondiEliminaa me sembra che aglaia, nel desiderare e nel fare un altro figlio dopo questa esperienza, sia stata più che forte...veramente ammirevole
apsetto con ansia il momento in cui la si finirà di giudicare e commentare con tale supponenza il dolore altrui...
Ciao FHE, benvenuta. In effetti anche io ho trovato questo commento contraddittorio e ambivalente, magari si cerca di fare coraggio ma... si finisce per farlo nel modo sbagliato.
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