venerdì 24 aprile 2015

qui in Danimarca

Cara collega
capisco che alla tua giovane età (che deduco rileggendo tuoi interventi precedenti) ci si possa sentire così "punte nel vivo" quando una donna racconta delle violenze subite da una di noi che scatta il desiderio di difendere la nostra categoria, attaccando e sconfermando le esperienze e i vissuti portati dalle donne.
Credo però che questo atteggiamento - ostetrico - sia da evitare o almeno contenere perchè di fatto è una nuova aggressione alle donne che hanno subito un'assistenza ostetrica che le ha fatte sentire violentate (o le ha realmente violentate). Purtroppo non ho elementi per ritenere che le esperienze negative riportate, sia sul piano assistenziale che umano e relazionale, non siano reali o addirittura siano legate a qualche fragilità psicologica delle donne che le raccontano. Con tutta onestà, in molti ospdeali (forse non nel tuo, ma ... è davvero un'eccezione), possono accadere con maggior o minor frequenza situazioni di violenza psicologica o di assistenza inappropriata.
In 15 anni di lavoro in Italia, in grandi ospedali del Nord, ho più volte riscontrato esperienze di cattiva assistenza. Credo valga la pena di riflettere che per noi "cattiva assistenza" è quella che esita in problemi seri al neonato e alla mamma, ma non consideriamo "cattiva assistenza" i traumi psicologici o fisici (nel caso di prolungato dolore ai rapporti dopo un'episio o una lacerazione mal suturata) , spesso inscindibili. E' vero che quasi nessuna di noi vede le donne nel tempo, dopo che le ha assitite, e talvolta anche se le incontra tende a giustificare/normalizzare un'assistenza discutibile, incrementando il senso di frustrazione, rabbia, inadeguatezza.
Le esperienze che ho avuto all'estero, all'inizio della mia esperienza lavorativa e ora, mi hanno portato a riflettere su quanto da noi in Italia ci sia pochissima formazione oltre che ad un'assistenza basata su prove di evidenza (che ci "urlano" di limitare le episio a pochissimi casi) ma anche ad una comunicazione basata sull'ascolto.
E' vero che nei nostri corsi di laurea ci sono molte ore di psicologia, pedagogie sociologia ecc., ma i saperi di queste discipline poco ci servono se non facciamo un lavoro su noi stesse, di comprensione dei sentimenti aggressivi che proviamo di fronte a una donna arrabbiata - giustamente - di fronte alla messa in discussione, e soprattutto se non ammettiamo che siamo fallibili, che possiamo sbagliare, anche se siamo animate dalle migliori intenzioni.
In Inghilterra e qui in Danimarca ogni settimana abbiamo momenti di riflessione critica del nostro operato, siamo sanamente costrette a vedere gli errori e apprendere da essi. Se una donna scrive una lamentela è seriamente considerata, ci si chiede cosa come operatore ho fatto per cui lei ha quel vissuto, quella lamentela da fare; si ascolta, si chiede scusa e prima di etichettarla come problematica psichica ci si guarda dentro.
Ti posso assicurare che negli anni ho visto donne psicologicamente sanissime essere devastate da cattive assitenze al parto e soprattuttuo, dopo, dal fatto che oltre alla cattiva assitenza si sentivano etichettate come persone con problematiche psicologiche.
Per me è stato un passaggio chiave il lavoro su di me per arrivare ad un ascolto il più possibile non giudicante e non etichettante, e il confronto costante con le colleghe su atteggiamenti che, pur con le migliori intenzioni, non avevano certo effetti positivi sulle donne.

ost75 (post originale)

lunedì 2 marzo 2015

una foto dal futuro

Intorno alla data presunta del parto, l’angoscia si era riaffacciata di prepotenza. Mi ero messa in testa che per il buon esito di tutto quanto avevo una lista di “cose da non fare”, tipo andare dal parrucchiere e rispondere al telefono e alle varie messaggerie. Non volevo andare dal parrucchiere perché l’avevo fatto prima di partorire la Stellina in modo da essere “in ordine” per dopo – e poi non avevo potuto muovermi per tre settimane, così da qualche parte era spuntato il pensiero che se invece fossi andata in ospedale spennata e coi capelli a carciofo, il parto sarebbe andato liscio e mi sarei ripresa prima così sarei andata dopo a farmi sistemare. Più seriamente, avevo bisogno di fare silenzio intorno a me e dentro di me. All’approssimarsi della DPP della Stellina chattavo in continuazione nei forum e ricevevo continuamente sms e telefonate che chiedevano notizie. Col senno di poi, mi ero resa conto che invece di rilassarmi mi innervosivo moltissimo. E infine avevo una lista di persone da non chiamare. Mia mamma, perché ogni volta che le parlavo mi sembrava di respirare la sua paura – con il primo parto avevo impiegato tutte le mie energie per mettere la paura sotto il tappeto, lei pensando di far bene, al telefono me l’aveva fatta tirare fuori facendomi parlare, ero diventata un fiume in piena ma a parte il “comandarmi” di fidarmi del personale, lei non era riuscita a calmarmi, così ero arrivata in reparto in preda all’angoscia senza che riuscissi nemmeno ad ammetterlo. Più stupidamente, mi ero messa in testa che nella lista di persone c’era anche la terapeuta. Ho avuto la saggezza di cambiare idea, ma di nuovo le circostanze si sono messe di mezzo e non siamo riuscite a sentirci in tempo. Però sono stata contenta di aver saputo cambiare idea.
Invece di nascondere l’angoscia, ho cercato di parlarne. È stata determinante mia sorella.
Le ho detto che facevo gli incubi perché, sapendo stavolta prima che il baby era un maschio, mi sembrava che nostra mamma e nostra zia mi avessero trasmesso perfino più forte la paura di ripetere la storia famigliare. Ogni dettaglio che – fino all’ultimo – inavvertitamente mia mamma sottolineava con la prima esperienza di mia nonna, più il pensiero della conversazione con mia zia – mi scatenavano dentro una tempesta di pensieri orribili. Era come se al di là delle parole dette, che erano scelte per essere incoraggianti, sentivo che la sfiducia di fondo di mia mamma rosicchiava la fiducia che nutrivo verso l’ospedale in cui andavo e la figura che avevo scelto, l’ostetrica Karin. Sapevo con certezza che non sarei andata da nessuna parte se avessi continuato a sentire quelle sirene: non mi importava tanto di ripetere il cesareo, quanto di ritornare in uno stato di angoscia totale in cui c’era il terrore di morire o di essere responsabile della morte del baby.
In una lunga sequenza di sms, mia sorella mi aveva fatto presente che al di là di quello che dicono mia mamma e mia zia, sono io stessa ad avere un problema di ansia. Non mi faceva piacere sentirmelo dire, ma effettivamente mi era servito. Soprattutto, mi aveva fatto presente che nostro zio era nato durante la guerra,  probabilmente nel ’43 o ’44. Negli ospedali non c’erano molti dei disinfettanti che noi oggi diamo per scontati. Sarebbe probabilmente sopravvissuto, se fosse nato solo un paio d’anni più tardi. (In “Vestivamo alla marinara” Susanna Agnelli, infermiera diplomata, raccontava che subito dopo la guerra aveva letto che in America avevano appena scoperto un prodotto in grado di far guarire le infezioni in un tempo straordinariamente breve. Lo riferiva a un medico e questo le rispondeva “E lei ci crede? Dio mio, quanto deve essere stupida”). E anche per nostro cugino, nessuno è mai riuscito a stabilire una connessione sicura fra la sofferenza durante il parto e la sua epilessia, dato che nella famiglia del marito di mia zia c’erano stati alcuni casi. Queste parole mi avevano calmato e permesso di prendere le distanze dall’agitazione: qui c’era neonatologia, ed essendo un ospedale potevo star sicura che in caso di avvisaglie negative, avrebbero agito di conseguenza. Forse proprio perché la possibilità era diventata più remota, si affaccia un pensiero difficile, e cioè che se fosse capitata una disgrazia, sarei sopravvissuta. Ammaccata e stranita come mia nonna, ma sarei sopravvissuta. Ma è un pensiero che si affievolisce, perché tutte le ostetriche avevano sempre ripetuto: la priorità assoluta è la sicurezza del bambino. Qui c’è neonatologia. Con i disinfettanti.
A partire dal controllo 40 + 0, sento distintamente che l’unica cosa che mi fa stare meglio è…  andare in ospedale per i controlli. Non saprei dire bene perché. Credo che in ogni singola occasione mi sento rassicurata da persone gentili e sorridenti. I ginecologi che mi visitano sono positivi: i valori sono a posto, la pressione è a posto, il bambino non è macrosomico, non c’è nessuna fretta, dal primo parto sono trascorsi quasi cinque anni per cui una rottura d’utero è improbabile: ci sono tutte le condizioni perché questo sia come un primo parto. Avevo fatto il colloquio per l’epidurale, in cui  un’anestesista molto timida e nervosa ci aveva avvisato di calcolare circa un’ora da quando viene chiamata a quando può effettivamente presentarsi in reparto: questa informazione, che lei presentava come negativa, aveva avuto l’effetto di rassicurarmi ulteriormente sul fatto che per loro era una procedura di routine. In televisione vedo uno straordinario documentario sull’effetto placebo e mi sembra di vivere una situazione simile. Osservo le decorazioni sui muri: una specie di fiume – o di vento – è disegnato lungo tutte le pareti. In questo fiume ci sono figure femminili che si abbandonano alla corrente. Ogni tanto una donna ne prende in braccio un’altra.
Al controllo 40 + 2, ricevo un sms da Karin, che mi chiede se sento qualcosa. Fin dal primo incontro lei aveva messo le mani avanti per non creare illusioni: non avendo avuto contrazioni al primo parto, avevo il 50% di possibilità che si avviassero nel secondo in quanto l’utero non conservava memoria di un’attività precedente. Le rispondo che sento un calore alla schiena simile a quello delle mestruazioni.
Da qualche settimana faccio sedute di agopuntura proposte dall’ospedale, quando dico all’ostetrica di aver superato il termine, mi pianta l’ultimo ago nella mano sinistra “avvitandolo” sulle ossa del pollice. Ahi! Cerco di andare ancora a ginnastica e camminare tutte le sere, arrivo stanca ma sento che mi fa un gran bene. Con Marlon la sera proviamo i massaggi del “metodo Bonapace” poi provo la respirazione yoga e se non riesco a dormire attacco una sequenza di mp3 new-age (mai fatto prima, ma fa effetto, penso anche perché non l’associo a nessun ricordo). L’ostetrica al corso preparto ci aveva consigliato di mangiucchiare durante il travaglio e mi aveva sussurrato all’orecchio di nascondere della cioccolata per Marlon – in valigia ci finisce confezione di “palle di Mozart” un po’ per ridere, un po’ per immaginarmi in sala parto. Inizio a dirmi che tutte le scadenze lavorative che continuano a frullarmi in testa non devono necessariamente essere concluse “prima” ma possono esserlo anche “dopo”.
Al controllo 40+7, vado in ospedale. Il caldo ai reni continua e ogni tanto sento qualcosa alla pancia che mi fa cambiare il respiro. Chi mi mette il monitoraggio è la stessa ostetrica che avevo incontrato al mio primo ingresso in quell’ospedale, e che mi aveva presa per mano per accompagnarmi dalla caposala perché non capiva quello che dicevo. Mi sembra molto più bella – o me la ricordavo più brutta? Ma sono sicura che sia lei. Ha molta fretta e pasticcia, salta il mio turno e le dico che forse non l’ho sentita quando mi ha chiamato. Mi sorride mentre mi allaccia la cinghia.
Siedo guardando la finestra e mentre aspetto, sento la pancia che si arriccia e inizio inavvertitamente a soffiare. Il tracciato segna chiaramente un’ampia curva. La volta precedente erano delle scosse microscopiche che l’ostetrica aveva attribuito ai movimenti del bambino, e in effetti non avevo avvertito niente del genere.
Questa curva invece è un dato oggettivo. Non stavo sognando. È una contrazione. Leggera.
Mi sono commossa.