sabato 28 gennaio 2012

Da quel momento io vivo in lei e respiro in lei. 'Volevo fare la Fulgeri', di Marzia Bisognin

Mi sveglio col batticuore. È notte.
Ho spesso contrazioni in questo periodo, ma questa è diversa, più profonda, come se qualcosa cominciasse davvero ad aprirsi. Sono emozionata, spero che tutto vada per le lunghe, devo abituarmi all’idea, ho paura e non voglio perdermi nulla. È come quando si sceglie se viaggiare in treno o in aereo. Il treno permette di arrivare con la mente e il cuore insieme al corpo, l’aereo accelera i tempi, è molto emozionante ma si arriva sfasati. All'epoca del calesse si sarebbe detta la stessa cosa del treno, ma i tempi sono cambiati. Ora voglio viaggiare in treno e guardare fuori dal finestrino.
E dunque, il grande viaggio è incominciato. Sveglio Luciano e aspettiamo il mattino.
Ho contattato un’ostetrica abbastanza giovane, una Compagna, lavora in ospedale ma è disposta ad assistermi a casa. Le piace l’idea, è un’idea d’avanguardia, radicale, e la radicalità piace al movimento femminista extraparlamentare anni Settanta, riprendiamoci la vita, riprendiamoci il corpo e riprendiamoci il parto.


(...)
L’ostetrica, Renata mi pare si chiamasse, mi visita spesso e io non lo sopporto. In questa gravidanza sono diventata una specie di selvaggia, e qualsiasi intromissione nel mio corpo la sento come una profanazione della mia sacra caverna.
L’attesa dura tutto il giorno. Ogni dieci minuti esatti ho una contrazione dolorosa, chiedo silenzio, mi estraneo da tutto, respiro veloce, e poi passa. Guardo sempre l’orologio che ho al polso, un vecchio orologio da uomo che Pani mi ha prestato per l’occasione.
Per il resto sto benissimo.
Mi piace essere circondata da tante persone, mi sento una specie di dea della fecondità e, siccome sono una megalomane, mi nutro di questa sensazione.
Non mi dilato. Non supero mai i due-tre centimetri di dilatazione. Renata comincia a minacciarmi, o almeno è così che io vivo quello che mi dice. Sento la sua paura che serpeggia, la sento nel suo linguaggio tecnico e freddo, nel suo pensa al bambino non essere irresponsabile.
- Se non ti dilati, se alla prossima visita non sei dilatata di più, devi andare in ospedale. Quel che va fatto va fatto, non c’è motivo di fare tragedie
Ospedale. Ecco la parola terribile. Ospedale, medici, camici bianchi, sala parto, lettino da parto.
Orrore.
La notte passa in questo clima di paura, il mio corpo mi è diventato nemico, e fa quello che gli pare. Ogni volta che vedo Renata avvicinarsi, mentre si infila i guanti di lattice per la visita, mi sento come se mi presentassi all'esame di maturità senza avere aperto un libro. Due centimetri. L’unica consolazione sono gli amici sparpagliati per la casa. Quando vado in bagno a fare pipì scavalco qualcuno che dorme in sacco a pelo, saluto qualcun altro che si sta facendo un caffè in cucina.
Alla mattina sono disperata, non ho nemmeno la forza di parlare. Usciamo, diretti all’ospedale di Lugo, quaranta chilometri di pianura.
A Lugo c’è un ospedale dove fanno quello che allora si chiamava “il parto Leboyer”. Ossia luci soffuse, silenzio, taglio tardivo del cordone ombelicale, e bambino sulla  pancia della madre appena nato per ricreare subito il contatto. Ciò che di meglio si può sperare da un ospedale reparto maternità, anno 1978. Mi ero premurata di scegliere un ospedale decente, nel caso ne avessi avuto necessità.
Siamo io, Luciano e Pani che guida l’auto. Lascio la tana dove sono rinchiusa da ventiquattro ore, lascio le persone che mi si erano raccolte intorno, il letto stropicciato, gli odori di casa mia.
Fuori c’è un sole bellissimo, è l’estate di S. Martino ma io sembra che vada a un funerale.
Quaranta chilometri di contrazioni ogni dieci minuti. L’autostrada attraversa la pianura illuminata dal sole freddo del mattino. Gli alberi hanno le foglie gialle e una leggera nebbiolina avvolge tutto. Ogni tanto appare un albero di cachi, già spoglio delle foglie e carico di frutti arancioni. Tutta questa bellezza serve solo ad aumentare il mio senso di catastrofe imminente.
Siamo arrivati, parcheggiati davanti all’ospedale, io e Luciano soli. Scoppio in un pianto disperato. Aggrappata a lui, i miei singhiozzi di bambina mi scuotono fino nelle viscere, mi sento come deve sentirsi l’agnello quando lo portano all’altare sacrificale. Questo pianto però mi fa bene. Varco la soglia dell’ospedale un po’ meno impaurita. Tutti sono solerti, professionali, veloci. Io sono una delle tante.
Mi visitano, è solo un travaglio lungo ma va tutto bene. Questo mi tranquillizza, le mie fantasie da camera di tortura medievale si placano.
Mi portano nella mia stanza. Ci sono due letti, ma sono sola. Ho con me la mia triste valigetta, con gli effetti personali miei e del bebè. Tutto il mio calore, la mia vita di sempre, sta in quella specie di cestino da asilo.
Arriva un’infermiera per farmi il clistere di routine. Orrore, sono entrata nella catena di montaggio, e sono nelle loro mani.
Poi ne arriva un’altra con una pastiglia.
- Prendila.
- Scusi, che cos’è?
- Ossitocina.
- E perché mai dovrei prenderla?
- Così partorisci più in fretta, in due ore hai finito. Le donne da noi partoriscono tutte in due ore.
- Guardi che io non ho nessuna fretta, partorirò quando sarà il momento.
- Niente da fare, questa è la prassi, il primario vuole così, lo stesso primario che non vuole vedere donne in travaglio a letto, ma a camminare in corridoio.
E l’ossitocina, mi dicono, me la spareranno in corpo con una flebo nella fase espulsiva, in sala parto.
- Scusi, e Leboyer che c'entra?
- Non ti preoccupare per quello, le luci saranno basse, il taglio del cordone, il silenzio e tutto il resto, tutto regolare.
Finalmente ricomincio a diventare rabbiosa. Esco da quello stato un po’ ebete da candide lenzuola d’ospedale e infermiere inamidate e sorridenti, qui non si corrono rischi.
Le pastiglie faccio finta di prenderle, poi vado a sputarle in bagno. Mi si fa strada un’idea, all’inizio quasi per gioco. Tornare a casa mia.
- Luciano, adesso noi ce ne andiamo di qui.
Lui pallido, mi guarda come se fossi pazza, ma una di quelle pazze a cui non si può dire di no. Sono di nuovo allegra, gonfia di me come un’albicocca matura. E poi lo dicevo che doveva nascere l’undici, perciò nascerà l’undici.E così chiamo la Fulgeri, quell’ostetrica di montagna che mi aveva tanto spaventata la prima volta. Le spiego brevemente le cose. Lei, serafica:
- Venga su a S. Benedetto, la visito e poi vediamo. Si fa un bel giro in montagna, che è una giornata bellissima.
Lo ammetto, mi ha spiazzato. Questa è più matta di me.
- Guardi che devo fare centocinquanta chilometri, e sono alla trentacinquesima ora di travaglio.
- Non si preoccupi, non nasce per la strada. Al massimo nasce qui, così nasce in montagna.
Trionfante, do la notizia a Luciano e Pani, e ai medici. Questi non possono credere alle loro orecchie, proprio non capiscono perché voglio andarmene, loro sono così all’avanguardia. Mentre preparo di nuovo il mio cestino da asilo, loro sfilano uno dopo l’altro, per sapere e capire. Io mi sento una specie di eroina di frontiera. Di poche parole.
Firmo. Partiamo.
Durante il viaggio siamo allegri, scherziamo e facciamo i cretini. Adesso gli alberi di cachi mi rendono più felice. Sembrano gioielli, con i frutti rotondi incastonati come pietre nei rami nudi. Ogni dieci minuti, un minuto di religioso silenzio per la mia contrazione.
S. Benedetto Val di Sambro è un paesino silenzioso immerso nei boschi infuocati dai colori dell’autunno. Ricordo il cielo azzurro intenso.
La Fulgeri, spiccia e sicura di sé, mi visita nel suo ambulatorio di ostetrica condotta nel palazzo del Comune. Mi dice di tornarmene a casa.
- Vedrà che partorisce stanotte, venitemi a prendere verso le otto, stasera.
Di nuovo, partiamo. Euforici.
Una curva dopo l’altra riattraversiamo i boschi accesi di rosso e giallo. Imbocchiamo l’autostrada e arriviamo a Bologna poco prima del tramonto. Torniamo a casa, si ricomincia. Si radunano di nuovo gli amici, increduli e trionfanti. Io sono felice di essere a casa mia, e di non essermi fatta fregare. Quando la Fulgeri arriva, alla sera, inizia il travaglio vero, quello che va avanti. Io le dico che voglio fare tutto da sola, ho paura di essere sopraffatta, è la mia paura più grande.
- Non voglio che fai niente. Voglio fare tutto da sola. E non mettere il bimbo a testa in giù quando nasce.
Siamo passate a darci del tu. Fa più intimo.
- Ma sì ma sì, io faccio come vuoi.
- E non gli dare nessuna sculacciata.
- Sì sì...
- E parla piano, non urlare.
Lei non sta zitta un secondo, riesco a spedirla in cucina a bere un caffè, voglio stare un po’ sola.
I dolori diventano sempre più intensi, non so come governarli. Ho la sensazione che qualcosa di gigantesco si stia aprendo dentro di me, non mi riconosco più. Quando si rompono le acque, è uno scroscio caldo tra le gambe piacevole e liberatorio, che da il senso dell'ineluttabilità di quello che sta succedendo.
Non riesco a pensare, sono sbattuta di qua e di là. Solo dolore. Lei mi dà qualche consiglio, ma io sono ribelle a tutto, non voglio farmi visitare, nemmeno toccare. Combatto.
Ma quando la tempesta è al suo culmine, io divento come una bambina. Ho bisogno di aggrapparmi a qualcuno, e lei sa offrirsi bene come timoniere. Da quel momento io vivo in lei e respiro in lei. È lei a dirmi che è arrivato il momento di spingere, io non le sento queste famose spinte che dovrei sentire.
Mi accorgo che spingendo, all’inizio molto lievemente, mi sento meglio.
Ho bisogno di averla accanto ogni secondo, come nei momenti di più intensa passione amorosa ho bisogno che mi tocchi continuamente, e che mi guardi, e che mi parli. Come quando ero bambina e desideravo ardentemente mia madre. Se si allontana di mezzo metro da me, mi aggrappo al grembiule bianco che ha indosso, e la chiamo.
- Vieni qui, non lasciarmi sola, aiutami.
- Vuoi che ti aiuto nelle spinte? Spingo sul sedere del bambino, lo aiuto a scendere...
- No voglio fare da sola.
- Facciamo una prova soltanto, così senti la differenza. Poi decidi.
Fatta la prova, non voglio più che smetta.
A quasi vent'anni di distanza, lei ancora mi prende in giro:
-Voglio fare tutto da sola, non voglio che fai niente....e poi non potevo nemmeno girarmi un secondo!
Lei fa il tifo, spingi, spingi, brava, così.
Come dirà Amaranta diciassette anni più tardi vedendola all’opera:
- La Fulgeri ti fa sentire una dea. Tu sei lì che pensi vai così, io sono grandiosa, sono nata per partorire!
Molto vagamente ricordo le facce intorno a me con gli occhi sbarrati. Sono in un mondo tutto mio.
- Spingi dai che si vede la testa! È piena di capelli. Ehhh che capelli neri!
Impossibile, è proprio di me che sta parlando?
Tra una spinta e l’altra mi addormento. Sono solo pochi secondi, ma in un attimo la coscienza si stacca dal corpo e sprofondo in un sogno. Pochi istanti dopo la contrazione dell'utero riacciuffa la coscienza, e reclama tutta la mia forza. Così passo da un sogno a un altro sogno, tra una contrazione e l'altra.
Il dolore è così forte che è come una materia densa dentro cui posso tuffarmi. È quasi esaltante. Non riconosco più il mio corpo. Ma qualcosa di me fa ancora resistenza, ho paura.
Ad un certo punto capisco, ed è un crudele capire, che non posso farci niente, che indietro non posso tornare, che posso solo andare avanti. Così penso che va bene, che se devo morire, morirò. Che partorire è come morire, è attraversare un ponte che mai più si potrà percorrere all’indietro. Che il terrore è lo stesso terrore, è un salto nel vuoto. Che diventare la porta per un altro essere è questo. Questo pensiero mi toglie la paura, mi dà la forza di abbattere le ultime resistenze, e allora tutto diventa così incredibilmente esaltante.
Spingo con tutte le mie forze, sento la voce della Fulgeri che mi incita:
- Dai dai che ci siamo! Brava brava, dai dai, ancora una bella spinta, così, sì, è quasi fuori!
Sento il mio corpo trasformarsi, gonfiarsi, oscenamente aprirsi.
È cosi che deve sentirsi la terra quando un enorme germoglio la trapassa per venire alla luce, tipo il germoglio della favola del fagiolo magico. Ci siamo:
- Non spingere adesso, sta uscendo.
E poi una cosa enorme sguscia fuori.
La Fulgeri grida - alla faccia del “decalogo” Leboyer - È UNA BAMBINA!!!


Sento un’esplosione di urla intorno a me. Tiro su la testa e la vedo. Amaranta è lì, tutta bagnata, acciaccata, non piange e mi guarda. In quello stesso istante la riconosco, è lei. Siamo ancora attaccate dal cordone, grosso, pulsante e quasi fosforescente e posso vederla e toccarla.
La Fulgeri taglia il cordone e me la da.
Tutti stanno piangendo, e Francesco ha quasi strozzato Pigola, la mia gatta, che aveva in braccio.
Anch’io piangerò ogni volta che vedrò nascere un bambino. È un pianto speciale, irresistibile, che viene da radici molto lontane.

Sembra finito, invece no, c’è ancora la placenta da fare uscire. L’idea che ancora qualcosa debba uscire di lì mi fa impressione, invece è molto piacevole sentire questa cosa morbida e caldissima. La placenta è una vera sorpresa. La immaginavo un sacchettino di pelle, invece è una enorme cosa che pesa quasi un chilo, un involucro di carne, una culla, un nido. Una grande bistecca.
Tutto è concluso. Io e Amaranta siamo lavate e vestite, una appiccicata all’altra, nel letto. Tutti ci sono intorno, pieni di stupore e di commozione, e la guardano, anzi la adorano.
È così che ricordo tutti i pastori davanti alla capanna di Gesù Bambino, in adorazione. Io ero piccola, a Bagnarola, e stavo ore a guardare il presepe, incantata da quell’adorazione interminabile. È l’effetto neonato.
Io sono trasfigurata, illuminata almeno quanto il Buddha sotto il suo albero, anzi io credo di più, perché lui, poveretto, era un uomo e non poteva vivere niente di simile.
Ho male da tutte le parti, e non riesco a girarmi. Allora tengo uno specchio in mano, e la guardo riflessa nello specchio. Dorme e io non posso credere che sia così bella. Sembra un umano in miniatura.
Ho le foto di quella adorazione. Martina, Pani, Luciano e io con lo specchio in mano e un sorriso di bambina su una faccia di bambina.
Sono le quattro del mattino. La Rosa riaccompagna la Fulgeri a S. Benedetto.
Quel mattino Bologna si sveglia con una scritta colorata sui muri: È NATA  AMARANTA.
La placenta la seppelliamo in un grande vaso nel cortile di via Arienti. Non so più chi è andato a prendere la terra da un’aiuola vicino al tribunale, e ci abbiamo piantato una pianta di rosa. Credevamo ancora, e ci piaceva pensarlo, che le radici del nostro giardino potessero affondare in un vaso.
A primavera, quando Amaranta aveva pochi mesi, è fiorita una rosa gialla. L’anno dopo è morta, rinsecchita perché le radici di un giardino sono troppo profonde per una vaso.

(Marzia Bisognin, Volevo fare la Fulgeri, 2011)

8 commenti:

  1. "Ad un certo punto capisco, ed è un crudele capire, che non posso farci niente, che indietro non posso tornare, che posso solo andare avanti". Questa frase come poche altre riesce a dire l'indicibile del parto. Quel fatto che è impossibile da trasmettere a chi non ha ancora partorito, e che tutti i corsi preparto - e questo blog - si arrovellano per capire come spiegare senza impaurire, ma senza illudere.

    E tutto il racconto è splendido. Continuo a piangere ogni volta che lo rileggo. Grazie a Marzia di averci regalato la sua preziosa presenza qui. Naturalmente consiglio a tutti di leggere il libro, comprarlo, regalarlo. E' un gioiello.

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  2. "Così penso che va bene, che se devo morire, morirò. Che partorire è come morire, è attraversare un ponte che mai più si potrà percorrere all’indietro. Che il terrore è lo stesso terrore, è un salto nel vuoto. Che diventare la porta per un altro essere è questo."
    E' questa consapevolezza, il sentimento che non è possibile vivere l'esperienza del parto senza vivere un'esperienza di morte, l'idea insomma che non è possibile soffrire ed urlare in quel modo - e uscirne vive, che mi fa pensare che io quel guado non lo attraverserò mai.

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    1. Calenda, quando diciamo che la civiltà occidentale ha scordato il valore della sofferenza, al di là dell'irritante cliché c'è del vero. Ma per fortuna e sfortuna, anche del falso: ci sono così tante circostanze per soffrire nella vita, e a chi più a chi meno tocca grossomodo a tutti. Se raffrontato a questa sofferenza normale che ci fa umani, che è parte della nostra irrimediabile fragilità che siamo giustamente sempre impegnati a combattere, il parto è davvero dolore che dà gioia, vita e amore. In quel momento magari te lo scordi, ma ci pensa la vita a ricordartelo più e più volte. Quel guado lo attraversiamo tutte e tutti, in qualche modo.

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    2. Grazie della risposta. Di getto mi viene da dire che per me, prima di tutto bisogna sapersi perdonare se ci si sente inadeguati e non all'altezza dell'attraversamento del guado. Anche e soprattutto qui.

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  3. Secondo me ci sentiamo tutti inadeguati. E lo siamo, del resto. Perdoniamoci, sempre e comunque :-)

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  4. Grazie Marzia e grazie Calendamaia che hai postato questo splendido brano
    Sono felice che finalmente Marzia abbia pubblicato questo libro, ricordo ancora la commozione con cui l'ho letto e riletto durante le mie gravidanze, su quelle fotocopie sgualcite che mi aveva passato un'amica
    Il tuo racconto mi aveva accompagnata ad ascoltarmi, lasciando da parte l'essere ostetrica, permettendomi di incontrare le mie fragilotà e le mie paure, uguali a quelle di tutte le donne
    E ascoltandole, ho potuto ascoltarmi e legittimarmi a scegliere quello che intuivo avrebbe fatto per me
    E se oggi in ogni nascita, nonostante la stanchezza di certe notti, le fatiche che mi porto da casa, riesco sempre a pensare che per quella donna, per qual bimbo e per quel papà è un 'esperienza unica, che segnerà tutta la vita, lo devo tanto alla svolta che questo libro mi ha accompgnata a fare, come mamma e come ostetrica
    Leggetelo e regalatelo, magari anche all'ostetrica che vi ha aasistito al parto!
    Un abbraccio a tutte
    Marisa

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  5. Cara Marisa,
    grazie del tuo bellissimo commento, ma in realtà è stata Lut Lia ad inserire questo post, per me il libro è finalmente approdato in libreria dopo lunga prenotazione e lo sto leggendo adesso, anche io con tanta emozione, come te. E da come vi esprimete sia tu che Marzia, so per certo che a modo vostro, per le donne che incontrate siete entrambe due Norma Fulgeri.

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  6. Grazie a tutte per questi commenti!
    Mi fa molto piacere che il racconto del mio primo parto sia in questo blog, che considero un archivio preziosissimo, imperdibile per chi vuole cercare di capire come le donne vivono il parto oggi.
    Quanto all'esperienza di morte, vorrei dire a Maia che è uno stato della mente.... mica una questione di sofferenza inaudita. Nella vita del resto la viviamo innumerevoli volte. Credo che avere questa consapevolezza sia importante, anche se eliminiamo completamente il dolore

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