sabato 8 ottobre 2011

sono una Mamma Prima

Mi chiamo Annarita e sono una Mamma Prima, prima del tempo, prima di ogni pensiero, prima di ogni immaginazione…

“La bambina è molto più piccola del previsto. Deve rimanere qui possibilmente da subito”. Il dottore in divisa verde guardava proprio me. Il suo sguardo era serio. La bambina è molto più piccola del previsto… la frase rimbalzava nella mia mente senza riuscire a trovare un pensiero dove fermarsi. Per un attimo rimasi senza fiato. Stava capitando proprio a me? Strinsi la mano di mio marito perché avevo bisogno di contatto. In un momento, tutto il mio mondo crollava.

Di colpo. Non lentamente, ma all’improvviso. Come se un grosso masso mi fosse caduto in testa mentre camminavo fischiettando allegramente guardando il cielo azzurro. Erano sette mesi che mi preparavo al parto naturale, che facevo la ginnastica delle mamme, che andavo a yoga per essere più consapevole al momento del parto… Insomma, nella mia mente ingenua ero convinta che avrei avuto un parto “normale”, senza troppi interventi medici. Volevo godermi la nascita della nostra prima bimba il più naturalmente possibile.

Poi arrivò lui. Il dottor X, quello che fece crollare tutti i miei progetti, quello che mi mise davanti alla mia realtà di mamma “prematura”. Quello che, senza dubbio, salvò la vita alla mia bambina.

La realtà era questa: la piccola Sole nella pancia non cresceva più. “Insufficienza placentare”: questo il termine tecnico per dire che, per qualche misterioso motivo, non le arrivava abbastanza nutrimento per cui era molto più piccola rispetto all’età gestazionale (32 settimane). Così mi hanno ricoverata per tenere sotto controllo il suo cuoricino. Appena avrebbe mostrato segni di sofferenza eccessiva l’avrebbero tirata fuori con un cesareo.

Ricordo il senso di smarrimento e di angoscia su quel lettino dell’ecografia, le lacrime che non riuscivo a controllare, la paura che arrivava tutta in una volta… Mi trovavo lì, sperduta, con i jeans e la maglietta che avevo messo la mattina per andare a fare l’ecografia di controllo. E la valigia? La famosa valigia della mamma che va a partorire? Nulla… Che differenza da quello che mi aspettavo! Mi trovavo lì, da sola, senza sapere cosa mi sarebbe successo esattamente, senza sapere fino a quando avrei avuto Sole nella pancia.

Io che ancora volevo vedere la mia pancia crescere, io che sognavo il parto naturale, io che ancora non ero pronta a diventare mamma per davvero, io che ancora non lo sapevo che i bimbi nella mia pancia non crescono bene… La sensazione più dolorosa di quei giorni, e anche di quelli successivi, era il senso di fallimento. Ricordo che il pensiero che abitava ogni attimo della mia mente e del mio corpo, anche se non del tutto consapevole, era: “non riesco a nutrire mia figlia, sono una madre incapace, forse non sono nemmeno una madre, né tantomeno una donna. Non sono neanche un essere umano, e dunque non sono degna di esistere…” non è stato facile passare attraverso il buio di quei giorni.

Ricordo che guardavo le donne nei letti accanto al mio. Le vedevo arrivare, diventare mamme e andare via con i loro piccolini sgualciti… una tortura… le guardavo allattare, cambiare pannolini, medicare cordoni, preoccuparsi per un singhiozzo, e sapevo che quelle scene di tenera maternità non sarebbero state per noi. Ben altri orizzonti ci attendevano, ben altre preoccupazioni, ben altri pensieri… Quando è nata, Sole pesava un chilo e duecento grammi. Un colosso in confronto ai tanti prematuri che nascono anche di mezzo chilo… uno scricciolino in confronto ai neonati del reparto “normali”e soprattutto in confronto alle mie aspettative…

Solo ora posso usare il verbo “nascere”. Ora che sono passati 4 anni… Prima, quando parlavo della nascita di Sole, dicevo “l’hanno tirata fuori”. Per molto tempo non sono riuscita a considerare il cesareo subìto un “parto”, ma solo un intervento. Ed in effetti così è stato. Un intervento d’urgenza. Alle 17.42 di un piovoso venerdì di settembre. Il cuoricino di Sole dava segni di sofferenza e non si poteva più aspettare. Il Babbo è arrivato di corsa, trafelato, agitato, emozionato comunque, perché i padri, per fortuna, sono fuori dalla mente delle mamme e riescono a capire quello che sta succedendo. E quello che stava succedendo era che stavamo diventando genitori. Almeno lui se ne è accorto. Almeno lui è riuscito a vedere Sole appena uscita dalla sala operatoria.

Io non l’ho vista. Per lungo tempo non mi sono potuta perdonare questo. Io non l’ho vista. Non l’ho vista. Non l’ho vista.

Ore dopo, stordita dall’intervento e dal dolore fisico, guardavo le foto di Sole sul cellulare di mio marito. Fissavo lo schermo piccolo in cui era visibile un involucro di alluminio da cui sporgevano due occhietti gonfi e chiusi. Lui mi raccontava di come le era stato accanto nell’ambulanza che, a sirene spiegate, aveva attraversato la città per portarla in un posto lontano e misterioso, chiamato Utin in cui tutti parlavano piano e portavano camici verdi.

Io ascoltavo, ascoltavo e… non sentivo niente. Il vuoto assoluto. Guardavo quelle foto che avrebbero dovuto emozionarmi fino alle lacrime perché ritraevano la mia bimba e invece… nulla! Ogni emozione era morta in me. Questo aumentava il mio senso di essere una madre incapace e in fin dei conti, orribile.

Spinta dalle ostetriche cominciai a tirarmi il latte. Poche gocce. Nulla. Tiravo tiravo. Uno sforzo sovraumano con un taglio nella pancia. A forza di tirare finalmente il latte è venuto. Non era proprio abbondante, ma Sole lo ha bevuto per 20 mesi….e questa è stata per me una grande rivincita…

A poco a poco, molto lentamente, uscita dall’ospedale, ho cominciato a fare la spola tra casa e il reparto di terapia intensiva. Andavo al mattino, consegnavo i biberon di latte tirato del giorno prima, entravo in reparto coperta dalla testa ai piedi da càmice, sovrascarpe, cuffia e, a volte, mascherina. Andavo davanti all’incubatrice, guardavo la piccola Sole che dormiva, dormiva sempre, chiedevo il peso del giorno, poi armeggiando con fili, allarmi, numerini lampeggianti, cavi, lenzuolini, prendevo il mio fagottino e me lo tenevo in braccio per delle ore. La allattavo, le cantavo le canzoni, le parlavo, la cambiavo, la rimettevo dentro alla sua casetta termica. Andavo a mangiare alla mensa dell’ospedale, e poi tornavo. Nelle pause mi tiravo il latte. Ero diventata un’impiegata, con la pausa pranzo e tutto il resto.

Poi a sera tornavo a casa. Senza Sole. Ero una mamma part-time… È stato un periodo strano, sospeso, assurdo… cinque settimane in cui non capivo se ero mamma oppure no. Certo, Sole non era più nella mia pancia, ma dov’era? Razionalmente lo sapevo bene, ma il mio cuore non si rassegnava e il mio corpo non capiva che razza di situazione fosse quella in cui la pancia era vuota ma non c’era un corpicino da scaldare costantemente vicino… anche a livello sociale non era semplice spiegare… i vicini di casa mi vedevano uscire e rientrare, sapevano che avevo partorito, ma non vedevano l’atteso fiocco rosa… non lo avevamo messo. Volevamo metterlo quando Sole sarebbe arrivata a casa, quando all’angoscia sarebbe subentrata la gioia.

Ogni volta che entravo nel reparto diventavo fragilissima, bastava un soffio per buttarmi giù. Una parola brusca, un cavo che si staccava, un allarme che suonava… un lenzuolino che mi cadeva, un grammo in meno rispetto alle aspettative, bastava un nulla per farmi precipitare nel baratro delle mie colpe… mi sentivo impotente e completamente in balìa di medici ed infermieri che sembravano Dèi scesi dall’olimpo, unici detentori del potere di far star bene la nostra piccola. Io non potevo fare nulla. O meglio, io sentivo di non poter fare nulla. E allora l’unica cosa che potevo fare era tirare il latte. Ogni tre ore in qualsiasi posto mi trovassi mi fermavo e tiravo il latte. Di giorno di notte, borsa termica, tiralatte, biberon sterilizzati… queste le uniche cose che mi davano l’idea di fare qualcosa di utile per la mia bimba.

Fortunatamente Sole non ha avuto altre complicazioni oltre a quella del peso e quando ha raggiunto i 2 kg l’hanno dimessa. Che emozione quel giorno di ottobre! La “nostra” nascita era arrivata! Finalmente potevamo mettere la nostra piccola nella culla che avevamo preparato con tanto amore, finalmente potevamo coprirla con la copertina che avevamo scelto per lei, finalmente potevamo portarla via da quei fili, da quei numeri sempre troppo imperfetti, da quei camici, da quei rumori… finalmente potevamo diventare genitori “normali”, finalmente potevo essere mamma a “tempo pieno”.

Ricordo ancora lo stupore e lo stordimento nell’ uscire dall’ospedale con Sole per la prima volta alla luce del giorno. Ricordo la fretta, l’ansia per non esporla a stimoli eccessivi, e ai batteri e ai germi. “State attenti” ci avevano detto prima di uscire i nostri amici dottori, state attenti perché la bimba è prematura, non deve ammalarsi, non uscite finchè non arriva a 3 chili e non portatela in luoghi affollati”.

Come si fa a non portarla in luoghi affollati? Quando ci sono amici e parenti che sono 5 settimane che aspettano di vedere la creaturina nuova? È La casa il luogo affollato! Così ogni parente, ogni amico diventava una minaccia, un possibile portatore di temibili germi…

Arrivati a casa è cominciata la lenta risalita. Grammo dopo grammo etto dopo etto le paure si allontanavano. Quando ho cominciato ad uscire con la carrozzina, finalmente orgogliosa di poter passeggiare con la mia creatura, mi dicevano: che bella bimba! È appena nata? Io pensavo ai lunghi e faticosi mesi trascorsi fino a lì, a quanto Sole avesse dovuto lottare per la vita in confronto a un neonato normale e, sorridendo, dicevo: No! Ha già un sacco di esperienza!!!

Poi lentamente abbiamo dimenticato. Se mi dovessero chiedere quand’è che si recupera la prematurità direi quando ti dimentichi.

Quando ti dimentichi che doveva nascere un mese o due o tre più avanti. Quando la smetti di fare calcoli di giorni e settimane da sottrarre all’età degli altri bimbi per paragonarli al tuo… Abbiamo dimenticato… Fino a che il dottor X, di nuovo, non è arrivato con la sua tempestività a dirmi “signora siamo già andati troppo oltre, deve venire qui, possibilmente da subito…” questa volta nella pancia c’era Luna e la notizia è arrivata per telefono, mentre guardavo barbapapà insieme a Sole…

La seconda volta è stato tutto diverso. Mi ero preparata ad affrontare il peggio, al parto naturale non ho pensato se non per un’attimo, quando ho visto il test di gravidanza colorarsi di rosso, ma l’ho subito rimosso dopo i primi accertamenti. Questa volta sapevo. Sapevo che la mutazione genetica ereditata dalla mia famiglia materna predispone alla coagulazione del sangue, per cui avendo il sangue meno fluido, aumenta la resistenza delle arterie uterine rendendo più difficile il passaggio del sangue che arriva al feto. Così mi sono curata. Ogni giorno ho fatto iniezioni di eparina, una sostanza che fluidifica il sangue. Ogni giorno mi preparavo mentalmente ad affrontare un cesareo, una prematurità e una terapia intensiva. Alla fine ero molto più forte.

Tutti mi dicevano che il secondo cesareo sarebbe stato peggio del primo, ma per me è stato il contrario. Il masso caduto dal cielo questa volta non mi ha trovato impreparata, ma ben salda sulle gambe e con dei muscoli allenati e pronti. Certo un masso è un masso e un po’ mi ha fatto vacillare, ma non mi ha buttato a terra. Ho chiesto di vedere la bimba e, questa volta, l’ho vista. Il giorno dopo ero già in neonatologia. Forte dell’esperienza precedente spesso ero io a dire alle infermiere cosa era meglio fare, come darle da mangiare, quando cambiarla ecc.. Certo non è stato facile lo stesso, ma avevamo dalla nostra molti elementi favorevoli.

Luna è nata di un chilo e otto, seicento grammi in più di Sole, e seicento grammi a 33 settimane fanno una grande differenza. Il conoscere le procedure, l’aver preteso di avere la piccola ricoverata nello stesso ospedale e non dall’altra parte della città, fa una grande differenza. E anche avere una bimba di 3 anni che ogni giorno vuole vedere la sua sorellina minuscola dal vetro del reparto, fa una grande differenza. Richiede maggiore forza, richiede tempi brevi di ripresa, richiede serenità…e dà tanto coraggio.

Dopo 12 giorni Luna era già a casa. Tutto è stato più naturale, più gioioso, più fluido. Questa volta il latte è arrivato abbondante, quasi subito… evidentemente anche il corpo era più preparato… Luna è stata la mia risalita, la faticosa risalita verso un sentirmi mamma “adeguata”. Adesso guardo le mie bimbe ormai “grandi”, le guardo giocare correre saltare, e sento che ne è valsa la pena.

* * *

Ora vorrei rendere utile la mia esperienza e usarla per aiutare le mamme prima come me a vivere meglio la prematurità. Ho aperto un blog dove raccolgo dati, pensieri ed esperienze sulla prematurità. Si chiama “Mammaprima” http://mammaprima.splinder.com, è aperto da poco e mi piacerebbe potesse diventare pieno delle voci di tante mammeprima”. Da psicoterapeuta il mio sogno-progetto è quello di creare un percorso post-nascita che aiuti le mamme e i bimbi a riprendersi un po’ di quello che è mancato loro, per ridare fiducia alle mamme, perché anche una carezza può fare la differenza e quello che può fare una mamma per il suo bimbo non lo può fare nessun altro, nemmeno il migliore dei medici…
Perché quando nasce un Bimbo Prima, nasce anche una Mamma Prima che va accudita con la stessa cura…

AnnaRita

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