domenica 9 maggio 2010

"Signora guardi, sua figlia è arrabbiata!"

"Dovete pensare di entrare in sala parto con lo spirito delle lanciatrici di peso alle olimpiadi, le donne sono fatte bene, il bambino noi siamo lì con voi per prenderlo". Incinta a 34 anni, immensamente felice, decido di non voler conoscere il sesso del bambino e m'informo da una ginecologa brusca ma gentile di un buon corso preparto. L'ostetrica è esperta ma ancora entusiasta, in gamba. Arrivate al capitolo "parto", fa del suo meglio per caricarci. Parliamo delle varie opzioni, parto spontaneo, taglio cesareo, la questione del dolore, l’opzione epidurale, che lei non scarta perché a volte permette dei veri “sblocchi” di parti faticosi, ma insomma, arrivare in sala parto con l’atteggiamento mentale di “farcela” è l’atteggiamento migliore. Avrei dato qualcosa per partorire con lei, ma per varie ragioni devo cambiare città.

Vengo da una famiglia di parti difficili. Mia mamma, mia zia, mia nonna, tutti parti faticosi, con esiti a volte drammatici. Mia nonna: tre figli, un maschio e due femmine, il primogenito ucciso dal forcipe, con la secondogenita quasi setticemia perché la placenta non era venuta via tutta. Mia zia: due figli, il primo epilettico perché, in anni in cui il cesareo era il Male, è stata lasciata due giorni in fase espulsiva per poi concludere con un taglio cesareo una volta accertata la sofferenza fetale (due giorni in fase espulsiva, ora so esattamente che vuol dire, e mi sono riconciliata con mia zia, da sempre in guerra col mondo). Mia mamma: due figlie, due cesarei d'urgenza. Oltre a questo, mi avevano sempre comunicato, tutte e tre, una sensazione di grande malessere per come erano state trattate in ospedale. I commenti colpevolizzanti di medici e ostetriche, perché sei ingrassata troppo, perché ti si erano rotte le acque ma non te ne eri accorta, perché le donne bloccano i dolori sperando nel cesareo. Né mia zia né mia madre erano poi riuscite ad allattare.

Cerco di lasciarmi tutto questo alle spalle, come fatti successi 40 anni fa, 60 anni fa. Tante amiche e colleghe mi parlano della loro esperienza con leggerezza, parto spontaneo o cesareo programmato. Il bambino rimane podalico per qualche settimana e con le mani lo ‘aiuto’ a girarsi, perché non voglio entrare in sala operatoria e desidero un parto spontaneo in cui poter essere attiva, per quanto male possa fare.

Ma verso la fine della gravidanza, ho la pessima idea di lasciar parlare una collega che mi descrive il suo recente parto da brivido - analogo al secondo di mia nonna, con il rischio di setticemia - e che mi dice che in sala parto si pensa solo al bambino, mentre della mamma non gliene frega nulla a nessuno. “La mamma viene trattata come una vacca, tu puoi anche morirgli davanti, ma a loro non interessa”.

Questa frase colpisce la mia immaginazione, demolisce tutto lo sforzo che avevo fatto per razionalizzare. Non mi aiuta il venire sapere che in molti ospedali c’è una sorta di ostracismo all’epidurale. Nell’ospedale dove sarei andata a partorire, mi allarma il silenzio imbarazzato della capo-ostetrica quando dico che ho appuntamento con l’anestesista per l’opzione epidurale; poi l’anestesista stesso, parlando a quattr’occhi, mi dice che le ostetriche fanno difficoltà, perché “poi le partorienti non spingono più”. Cerco di ricacciare indietro questi pensieri, ma se chiudo gli occhi non riesco a scacciare l’immagine di una donna morta dal dolore.

Il 9 dicembre verso le 11 di mattina mi si rompono le acque. Mio marito mi accompagna in ospedale cogliendo l’occasione di violare ogni divieto del codice della strada urlando a tutti che sono in travaglio “Una scusa come questa non ricapita più”.

Avevo preparato una valigia con tutto il necessario, compresa una selezione di musica “sala parto mix”. Vado all’accettazione in sala travaglio, di fronte a me c’è una donna in barella che si tiene le anche per le mani, urlando, la stanno portando in sala parto. Due giovanissime ostetriche mi spiegano che se entro 12 ore dalla rottura delle acque non comincia il travaglio, mi faranno una flebo di ossitocina. Passo circa 6-7 ore distesa su un lettino insieme a mio marito guardando lo schermo del tracciato che segna i picchi delle contrazioni. Sono rare e per nulla dolorose, mentre le compagne della sala travaglio si lamentano, quando da una delle sale parto viene l’urlo più terribile che mi sia mai capitato di sentire di persona. Non era l’urlo di una persona che aveva male. Era l’urlo di una persona sotto tortura, sembrava di essere finiti in un film di guerra. Durò quasi un'ora. Mi chiesi se come urlo era quello che ci si aspettava, se era l'urlo di una lanciatrice di pesi.
A un certo punto durante il tracciato del cuore, il battito va giù. L’ostetrica con voce tranquilla dice “Hai preso il battito della mamma?”, ma poi non trova quello rapido del bambino, e la vedo chiamare la dottoressa. La quale mi visita, e sente il cordone ombelicale premere sulla testina del bimbo. Mi fa un’ecografia in cui misura di nuovo il battito che sembra tornato normale, ma mi dice che è una situazione che non le piace. Mi ricontrolla dopo un’ora e trova che ho una dilatazione di un solo centimetro, il travaglio non si potrebbe dire nemmeno cominciato. “Qui non andiamo da nessuna parte, signora, Lei non partorisce neanche fra dieci ore”. Cesareo d’urgenza.


Escono tutti per preparare l’occorrente, mi viene da piangere. Mio marito mi confessa in un soffio che non mi capisce. Non capisce perché non accetto la soluzione più rapida, indolore, efficiente. Io gli rispondo che mi sembra di farmi mettere le mani addosso. Mi sembra di essere vittima di un brutto incantesimo che ha preso tutte le donne della mia famiglia. Ma poi sono sorpresa dalle ostetriche che mi domandano, con grande dolcezza, il nome, anzi i nomi decisi per il bimbo o la bimba. Niente a che vedere con le battutine malevole di cui mi avevano raccontato.
Mi portano in sala operatoria e ho un nodo alla gola. L’anestesista con voce leggera mi prende in giro perché tremo e mi domanda se voglio la totale o la parziale. “La parziale” rispondo, perché almeno voglio vedere. L’ostetrica mi tiene per mano mentre l’anestesista mi anticipa ogni suo movimento e le sensazioni che proverò. Mi fanno distendere e tirano una tendina verde, dietro cui operano. Non mi piace il rumore della mia carne. Mi arriva all’orecchio un gorgoglìo indistinto, che si trasforma in uno strillo. Un’ostetrica porta fuori da dietro la tenda un visino coperto di sangue, con l’espressione più furiosamente incazzata che si possa immaginare. “Signora guardi, sua figlia è arrabbiata!” La portano a lavare mentre l’ostetrica mi domanda di nuovo il suo nome, e io dico “Miriam” mentre la voce mi si spezza in un pianto liberatorio. Me la portano accanto al viso e sento il suo odore di zucchero. Poi la stanza si svuota e rimango ad aspettare che finiscano di ricucirmi.

Il reparto è chiuso alle visite a causa dell’influenza A, e quindi in camera entra solo mio marito , commosso e felice, a portarmi una minuscola bambina che mi si addormenta sul cuore. Stiamo noi tre, senza testimoni, per lunghi meravigliosi minuti a parlare fra noi e con Miriam.

Il giorno dopo vivo come in una pagina bianca, un silenzio senza colori. Non saprei dire come mi sento, ma il mio unico desiderio è quello di avere accanto mia figlia e mio marito. Con il passare delle ore, le ostetriche e le puericultrici mi dimostrano un’attenzione e un rispetto che scaccia via i fantasmi. La mia compagna di stanza è una pediatra tranquilla che ha partorito normalmente, con episiotomia e raschiamento, ma la vedo serena e ha una ripresa invidiabile. Miriam dorme pacifica e si attacca al seno, e grazie all’allattamento mi sembra di rompere il brutto incantesimo familiare.

* * *

Oggi sono grata alla dottoressa di avermi risparmiato un parto indotto, asciutto e con il rischio di sofferenza fetale. Miriam festeggia il suo quinto complimese il 9 maggio. È sana, sorridente, e con un carattere deciso che ha ben dimostrato appena uscita dalla mia pancia. E io sono tanto, tanto felice di essere sua mamma.

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